La conclusione della vicenda dei pescherecci di Mazara del Vallo Antartide e Medinea, il 17 dicembre scorso, resa possibile dal lavoro silenzioso del corpo diplomatico e soprattutto dell’Aise, la nostra agenzia di intelligence esterna, consente di fare alcune valutazioni sul modo in cui il Governo di Roma continua a gestire la questione libica e sul peso geopolitico dell’Italia nel Mediterraneo.
Il rilascio dei 18 membri degli equipaggi delle imbarcazioni siciliane, sequestrate il 1° settembre a largo della città libica di Bengasi, ha chiuso una lungo periodo di angoscia per le famiglie dei pescatori, che hanno potuto trascorrere il Natale insieme ai loro cari. I pescherecci sono stati oggetto di una controversia tra l’Italia e il generale Khalifa Haftar, a capo dell’Esercito Nazionale Libico, che controlla la Cirenaica ed è appoggiato dall’Egitto e dai suoi alleati del Golfo e, più discretamente, dalla Francia. La fine della prigionia ha rallegrato tutti, ma ha fatto emergere con maggiore evidenza dei limiti strutturali nell’azione internazionale dell’Italia, che non si possono più trascurare.
Durante i 108 giorni di detenzione dei pescatori, la politica italiana ha offerto al Paese e ai nostri partner internazionali uno spettacolo poco edificante. Le forze di opposizione si sono limitate a riferimenti polemici e superficiali alla questione, per recuperare qualche voto in un’opinione pubblica provata dall’emergenza sanitaria e dalla crisi economica. Da parte sua, il Governo ha agito con passo insicuro e malfermo, come se quanto accaduto nel mare di Bengasi non incidesse sulla posizione dell’Italia nel tormentato scenario libico.
La necessità di negoziare con Haftar e la totale indisponibilità a utilizzare qualsiasi tipo di strumento militare per tutelare gli interessi nazionali in Libia, ribadita in più occasioni sia dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte che dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio, hanno lanciato dei messaggi molto chiari, annotati con cura da chi, dall’esterno, ci osserva e studia i nostri movimenti. E cioè che Roma non riesce a gestire la sua politica verso l’antica colonia con chiarezza e determinazione né ad incidere sugli equilibri mediterranei. Ne è testimonianza il fatto che Di Maio si vanta di aver incontrato Haftar nove volte negli ultimi mesi, mentre la posizione ufficiale dell’Italia è di sostegno al Governo di accordo nazionale di Tripoli, guidato da Fayez al Sarraj e riconosciuto dalle Nazioni Unite, ma avversato dal generale della Cirenaica. Roma ha avviato contatti con Haftar quando sembrava che questi, con il sostegno dell’Egitto e degli Emirati Arabi Uniti, fosse sul punto di prendere il controllo di tutta la Libia, per poi tornare a sostenere Tripoli nel momento in cui i cospicui aiuti militari turchi hanno riequilibrato le forze in campo. Tali oscillazioni disorientano al Sarraj, che altrimenti non avrebbe cercato con urgenza l’appoggio interessato di Ankara, riconosciuto nel novembre del 2019 mediante un accordo per la definizione dei confini marittimi tra Libia e Turchia. Nello stesso tempo, Roma non ha rafforzato la sua influenza in Cirenaica, dove Haftar ricorre spesso alla retorica antitaliana e si comporta come un brigante, ordinando il sequestro dei nostri pescherecci, ben al di là del confine delle acque territoriali fissato dal diritto internazionale, sicuro che la Marina Militare non avrebbe mai ricevuto l’ordine di intervenire.
Queste oscillazioni non tutelano gli interessi italiani nel Paese nordafricano, con il rischio di perdere del tutto quel ruolo di punto di riferimento, che Roma conservava nella Quarta Sponda di un tempo, nonostante la propaganda del regime di Gheddafi. Di tale posizione resta molto poco, proprio in ragione dell’incapacità dell’Italia di definire con chiarezza i suoi interessi e di adottare un’azione internazionale coerente con essi, ricorrendo a tutti gli strumenti politici, diplomatici e militari permessi dal nostro ordinamento e dal diritto internazionale. Corriamo il pericolo di rimanere esclusi dalle opportunità economiche legate alla ricostruzione del Paese devastato da un decennio di guerra civile e allo sfruttamento delle ricchezze del sottosuolo, ma anche dalla possibilità di accompagnare la Libia verso un processo di riconciliazione nazionale e di creazione di istituzioni democratiche e rappresentative. Altre potenze stanno approfittando dello spazio libero lasciato da Roma, che ora deve abbandonare la politica delle oscillazioni e delle decisioni sempre rimandate per timore di scontentare qualcuno. Anche perché il modo in cui ci comportiamo in Libia lancia agli altri attori del condominio mediterraneo il messaggio che l’Italia non è in grado di difendere le sue posizioni nel suo cortile di casa, pur disponendo delle dotazioni geopolitiche per poterlo fare.
E allora non bisogna meravigliarsi se Haftar obbliga Conte e Di Maio a recarsi alla sua corte per ossequiarlo, in occasione della liberazione dei pescatori mazaresi, nonostante il maldestro tentativo degli esperti di comunicazione di trasformare il pellegrinaggio istituzionale in un grande trionfo politico. Non bisogna meravigliarsi se l’Egitto di Abdel Fattah al Sisi continua a coprire gli assassini di Giulio Regeni e a umiliarci con la tesi che il ricercatore sia stato ucciso da una volgare banda di rapinatori. Non bisogna meravigliarsi se l’Algeria tenta di arrivare con la sua Zona Economica Esclusiva quasi sulla spiagge della Sardegna occidentale. La verità amara è che l’Italia ha un peso trascurabile negli equilibri geopolitici del Mediterraneo contemporaneo. È tempo quindi di ricostruire la politica estera di Roma, dedicandole quelle risorse intellettuali, politiche ed economiche degne di una media potenza regionale con interessi globali.
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