Il 4 agosto 2020, l’esplosione di tremila tonnellate di nitrato d’ammonio ha devastato il porto di Beirut e una parte della città. I morti furono duecento, 300mila gli sfollati, imprecisato il numero dei feriti. Quel pomeriggio tragico ha soltanto accelerato una crisi che, giorno dopo giorno, sta trascinando il Paese in una spirale dalle conseguenze imprevedibili.
La popolazione, prostrata dal tracollo dell’economia e stanca dell’inefficienza del sistema politico, scende in piazza, unita dai colori della bandiera libanese. Per la prima volta nella storia recente, maroniti e sunniti, sciiti e armeni, drusi e caldei, soprattutto tra le giovani generazioni, hanno messo da parte le diffidenze reciproche. I cittadini chiedono cambiamenti profondi, non in quanto rappresentanti di un certo gruppo politico o religioso, ma come libanesi tout court. È un segno di speranza. La speranza dei libanesi.
Nell’Antico Testamento, il Libano è citato molte volte con riverenza e timore. Le imponenti catene montuose, le foreste di cedri secolari e le opulente città degli antichi fenici suscitavano l’ammirazione dei popoli circostanti, abituati all’asprezza del deserto siriano o degli altipiani della Palestina. Oggi, il Paese levantino è molto lontano dalle glorie del passato. Eppure, fino alla metà degli anni Settanta del secolo scorso, il Libano era definito come “la Svizzera del Medio Oriente”. Quindici anni di guerra civile, odio profondo tra gruppi etnici, strumentalizzazione della religione per fini politici e corruzione diffusa hanno scavato trincee nella terra e nei cuori, difficili da dimenticare. Il decennale conflitto siriano e, nell’ultimo anno, la pandemia di Covid-19 hanno aggravato un quadro generale già deteriorato.
Le prime proteste sono cominciate nell’ottobre del 2019. I libanesi scesero in strada, stanchi dei cumuli di spazzatura ammassati ovunque per l’incapacità della classe dirigente di gestire il ciclo dei rifiuti. Quelle manifestazioni si sono trasformate presto in rivendicazioni per condizioni di vita migliori e per un sistema politico più trasparente e responsabile. Da allora, la gente continua a protestare, soprattutto nella capitale e nelle città di Tripoli e Sidone, con scontri frequenti con le forze dell’ordine e fiammate periodiche di violenza.
I libanesi, nell’ultimo decennio, hanno sperimentato un peggioramento evidente della qualità della loro vita. Secondo le Nazioni Unite, poco più della metà della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. La povertà estrema, cioè la mancanza costante o frequente delle risorse basilari per il sostentamento umano, colpisce il 23% dei libanesi. Le ragioni di tale disastro sono molteplici. La guerra civile in Siria ha privato il Paese dei cedri del principale partner commerciale e destinatario di numerosi investimenti.
Inoltre, il Libano accoglie 1,5 milioni di profughi, in gran parte rifugiati, scappati dalle violenze di ogni tipo, che insanguinano il Paese vicino. Si tratta di uno sforzo che, per uno Stato con poco più di 4 milioni di abitanti, non può essere privo di conseguenze destabilizzanti sul sistema economico. Nonostante gli sforzi delle Nazioni Unite e delle organizzazioni non governative, i siriani continuano a vivere in condizioni precarie, mentre i libanesi non hanno le risorse necessarie per provvedere ai bisogni nazionali e a quelli dei profughi.
A tutto questo si aggiunge una classe politica, che rappresenta ormai solo se stessa ed è impegnata a difendere i propri privilegi e gli interessi di clientele sempre più frammentate. Lo stesso Hezbollah, letteralmente il “Partito di Dio”, fondato negli anni Ottanta e finanziato dall’Iran, riesce a mantenere con sempre maggiore difficoltà il controllo sulle comunità di riferimento.
Da ottobre dell’anno scorso, Saad Hariri, è riuscito a farsi designare come primo ministro per la quarta volta dal 2005. Egli è figlio di Rafiq, già a capo del Governo di Beirut tra il 1992 e il 1998 e poi tra il 2000 e il 2004, assassinato in circostanze che non hanno mai permesso di fare piena luce sui mandanti. Hariri si è impegnato a costituire un Esecutivo con un ampio sostegno politico per fronteggiare le emergenze. Ciononostante, le divisioni tra i partiti impediscono di arrivare a una soluzione della crisi. I donatori internazionali, tra cui la Francia, che vanta antichi legami con il Libano, si sono dichiarati disposti a sostenere Beirut. Il loro intervento è però subordinato a un serio contrasto alla corruzione e all’adozione di riforme economiche. Condizioni simili sono state poste dal Fondo Monetario Internazionale.
Tali misure appaiono tuttavia lontane dall’agenda della classe politica. E i libanesi continuano a protestare. Nei giorni scorsi, ampie manifestazioni hanno seguito la decisione della Cassazione di rimuovere il giudice che stava indagando sulla posizione dei ministri delle Finanze e delle Infrastrutture, in carica al momento dell’esplosione al porto di Beirut. I due uomini politici hanno invocato l’immunità parlamentare, suscitando l’indignazione profonda della gente. È difficile dire, in questo momento, se le proteste possano dare vita a una riconciliazione nazionale de facto tra comunità dilaniate da anni di violenze. Ma qualche seme è stato gettato e chissà che non cada nella terra fertile della buona volontà e del riscatto nazionale libanese.
Foto: Hussein Kassir
Scrivi un commento