Nelle relazioni internazionali non è possibile essere in buoni rapporti con tutti. A meno che non si scelga di rinunciare alla tutela dei propri interessi, nascondendosi in un angolino per non disturbare gli altri. Una politica del genere è tipica dei Paesi in declino, privi della forza necessaria a ritagliare e difendere il loro spazio nella comunità degli Stati. Collocarsi in tale posizione comporta inevitabilmente un declassamento nella gerarchia delle potenze, con il rischio di diventare la preda delle ambizioni altrui.

Questa è esattamente la condizione dell’Italia. La geografia ci ha posti al centro del Mediterraneo, in una posizione che gli altri ci invidiano. Il nostro Mezzogiorno potrebbe essere una piattaforma per gli scambi commerciali e i traffici tra Europa, Asia e Africa. Potremmo esercitare un controllo sulle rotte che passano tra la Sicilia e la Libia. Eppure, non contiamo quasi niente tra le onde del mare nostrum degli antichi romani. Anni di crisi economica, di disattenzione delle classi dirigenti e di persone inadatte alla guida della nostra politica estera hanno sgretolato quel ruolo di media potenza, costruito con pazienza e perseveranza dopo la catastrofe della guerra.

Ma le ultime settimane hanno lasciato intravedere un barlume di speranza. Essa ha il nome di Mario Draghi. Le circostanze che hanno portato l’ex presidente della Banca centrale europea alla guida di Palazzo Chigi sono note. Inattesa è stata invece l’attenzione che il presidente del Consiglio ha dedicato fin da subito alla dimensione internazionale. Chi si aspettava un premier concentrato solo sulla gestione dell’emergenza sanitaria, sulla definizione delle proposte per ottenere i miliardi del Next Generation EU e sulla preparazione del rilancio dell’economia si sbagliava.

L’europeismo e l’atlantismo sono i due pilastri su cui costruire l’azione internazionale dell’Italia nei prossimi mesi. E il Mediterraneo non può essere escluso da tale prospettiva. Il presidente del Consiglio lo ha dimostrato scegliendo la Libia per il suo primo viaggio ufficiale all’estero. Anche Matteo Renzi aveva preferito un Paese nordafricano, la Tunisia, per la sua prima visita fuori dai confini nazionali. Entrambi hanno una formazione culturale che non è estranea al concetto di “civiltà mediterranea” di Giorgio La Pira. Ma la missione di Draghi a Tripoli ha un significato molto più rilevante.

Nella nostra antica colonia, da ormai più di dieci anni, regna il caos. La caduta del regime di Gheddafi, voluta da francesi e inglesi anche per subentrare agli italiani nell’influenza sul Paese nordafricano, è stata seguita dalla guerra civile e da violenze di ogni tipo. Diverse potenze sono intervenute per sostenere fazioni pronte a garantire loro vantaggi per l’aiuto ricevuto.

Tra gli attori che appoggiavano il Governo di Fajez al Sarraj, riconosciuto dalle Nazioni Unite, la Turchia ha esercitato un peso determinante. Il sostegno di Ankara è stato fondamentale per resistere al tentativo del generale Khalifa Haftar, a capo dell’Esercito nazionale libico, di acquisire il controllo di tutto il Paese, occupando la Tripolitania. L’offensiva, lanciata nell’aprile del 2019, è fallita proprio grazie all’impegno militare turco. Richieste di aiuto da parte di al Sarraj erano giunte anche Roma. Ma il Governo di allora considerò con sconcerto tale opzione, che l’opinione pubblica avrebbe visto come un inutile spreco di risorse.

Il risultato della miopia italiana è che i turchi hanno acquisito una base di grande importanza geopolitica in Nord Africa e sono pronti a capitalizzare i loro investimenti. A Roma, la consapevolezza degli errori commessi è maturata lentamente, sebbene la minaccia per i nostri interessi fosse evidente da tempo.

Intanto, la Libia cerca con fatica di imboccare la strada della riconciliazione nazionale. A ottobre dello scorso anno, le fazioni in lotta hanno concordato un cessate il fuoco, in buona parte rispettato. I due Parlamenti rivali di Tobruk e di Tripoli hanno accettato di dare vita a un’entità unica e di appoggiare un Governo unitario, guidato dall’uomo d’affari di Misurata, Abdul Hamid Dabaiba. Quest’ultimo è incaricato di condurre il Paese alle elezioni, che dovrebbero tenersi il 24 dicembre prossimo.

In questa fase delicata, l’appoggio italiano è stato sollecitato da varie forze libiche. Tale richiesta deriva anche dal fatto che un abbraccio troppo stretto con la Turchia è ritenuto pericoloso per il futuro del Paese. E stavolta Roma ha risposto in maniera positiva. L’occasione è ideale per riprendere a giocare un ruolo di peso nella colonia di un tempo.

Washington appoggia il nostro ritorno in Libia. Gli Stati Uniti sono ostili alla presenza russa in Cirenaica, attraverso forze speciali e i mercenari del Gruppo Wagner. Questi hanno sostenuto le velleità di Haftar e intendono restare a Bengasi. L’obiettivo di Mosca è di rafforzare la sua proiezione nel Mediterraneo orientale, già migliorata con l’intervento nella guerra civile siriana, a sostegno di Assad.

La presenza italiana è utile agli americani anche per bilanciare le pulsioni imperiali della Turchia di Erdogan. Washington considera Ankara la principale minaccia alla stabilità del Medio Oriente e del Levante. La sua politica estera assertiva, che ha generato attriti con tutti i vicini, in particolare con la Grecia, Cipro e l’Egitto, minaccia anche gli interessi italiani. Non solo in Libia, ma anche nelle acque del Mediterraneo orientale, dove Eni ha numerose concessioni per la ricerca e l’estrazione di idrocarburi.

La Turchia è dunque un competitor dell’Italia e bisogna prenderne atto. Altrimenti l’unica cosa da fare è rinunciare a un ruolo attivo nel Mediterraneo. Senza lamentarsi per le ricadute sul nostro peso geopolitico e sul tessuto produttivo. Draghi sa bene che Ankara è un rivale da arginare. Allo stesso tempo, entrambi i Paesi non possono rinunciare alla cooperazione, soprattutto in ambito economico. L’Italia è il sesto partner commerciale della Turchia, con un interscambio pari a 13,6 miliardi di dollari nel 2020. Numerose imprese hanno aperto stabilimenti e fatto investimenti nel mercato turco. La diversità nei valori e la contrapposizione geopolitica non possono escludere il dialogo.

Ecco perché Draghi ha definito Erdogan “un dittatore con il quale bisogna collaborare”. Il commento rientrava nelle considerazioni sullo sgarbo fatto alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, relegata su un divanetto in occasione della sua visita ad Ankara, insieme al presidente del Consiglio europeo, Charles Michel. Ma è evidente che le parole di Draghi incidano anche sulla posizione internazionale dell’Italia.

Le dichiarazioni del presidente del Consiglio hanno spiazzato le cancellerie straniere. Queste non erano più abituate a un’Italia pronta a strappi, anche plateali, per affermare le proprie idee e difendere le sue posizioni. Inimicarsi il presidente-sultano comporterà dei costi. Ma non era più tollerabile che l’Italia continuasse ad apparire come in balia delle scelte altrui. Certo, si tratta di mosse iniziali, sufficienti però a tracciare una strada nuova nella nostra politica estera. Alle parole e ai fatti concludenti devono ora seguire indirizzi precisi. Ad esempio, non è lungimirante continuare a ridurre il peso della Marina Militare, reduce da anni di riduzione dell’organico e delle navi in servizio, mentre gli altri Paesi rivieraschi fanno investimenti in tale ramo delle loro forze armate.

Draghi porta al vertice della politica estera italiana il principio che una media potenza regionale, quale l’Italia è stata per un certo periodo, non può permettersi di essere amica di tutti. Ed è un bene, almeno in questo caso, che l’azione diplomatica sia guidata da Palazzo Chigi. Quanto a Luigi Di Maio, al quale deve essere riconosciuto un certo talento politico (è impensabile sostenere che sia stato soltanto fortunato), egli non dispone degli attrezzi concettuali né della sensibilità per definire una politica estera coerente con le sfide del momento. Mario Draghi sì.

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