Da alcune settimane, le manifestazioni popolari sono riprese nelle principali città algerine. Il movimento di protesta, conosciuto con la parola araba hirak, è nato nel febbraio 2019 per chiedere un sistema politico più trasparente e riforme economiche. Per circa un anno, i cittadini non sono scesi in piazza a causa delle restrizioni alla libertà di movimento, dovute alla pandemia di Covid-19. Ma le rivendicazioni nei confronti del pouvoir non sono cambiate. Sarebbe un errore per il regime sottovalutare tali richieste, perché la rabbia che si accumula lentamente può sfociare in violenze su larga scala.
L’Algeria è rimasta al riparo dagli sconvolgimenti politici, che hanno interessato il mondo arabo nel 2011. Il ricordo del “decennio nero”, che ha insanguinato il Paese negli anni Novanta del secolo scorso, ha lasciato nella memoria collettiva la paura di ricadere nella spirale della guerra civile. Il conflitto iniziò nel 1992, quando l’esito delle elezioni legislative dell’anno precedente fu annullato dai militari. Le urne avevano premiato le formazioni politiche di ispirazione religiosa, in particolare il Fronte islamico di salvezza. La decisione delle forze armate di rovesciare l’esito della consultazione portò allo scontro con gli islamisti, provocando un numero di vittime civili compreso tra 60mila e 150mila.
Solo all’inizio degli anni Duemila il Paese ha intrapreso la strada della riconciliazione, dopo l’elezione alla presidenza della Repubblica, nel 1999, di Abdelaziz Bouteflika. Quest’ultimo sfruttò il prestigio di essere considerato l’erede politico dei padri dell’indipendenza algerina, Ahmad Ben Bella e Houari Boumédiène, per superare le divisioni e ricostruire il sistema economico e l’architettura istituzionale. Ciononostante, con il passare del tempo, Bouteflika si è trasformato in un burattino nelle mani dell’élite militare che controlla il Paese. L’età avanzata e i problemi di salute avevano reso il capo dello Stato il paravento ideale a coprire e giustificare ogni genere di inefficienza e corruzione.
Per quasi due decenni, il regime algerino si è posto al riparo dalle contestazioni, protetto dalla repulsione della società verso nuove contrapposizioni e dalla repressione sistematica degli oppositori. Il consenso è stato ottenuto soprattutto grazie ai cospicui aiuti economici alla popolazione, resi disponibili dalla rendita petrolifera. I sussidi hanno finito per introdurre distorsioni profonde nel tessuto produttivo. Essi hanno sottratto risorse agli investimenti necessari allo sviluppo e alla differenziazione dell’economia, che dipende in larga parte dall’esportazione di idrocarburi.
Non è un caso che l’insofferenza della popolazione verso la classe politica sia emersa proprio in una fase di quotazioni del petrolio al ribasso. Dopo più di un decennio di crescita costante, dal 2014 i prezzi degli idrocarburi hanno cominciato a scendere. Tale contrazione era dovuta all’aumento di offerta, reso possibile dallo shale oil statunitense, estratto in abbondanza grazie a nuove tecniche, e dal conseguente tentativo dei Paesi produttori, guidati dall’Arabia Saudita, di impedire che gli americani diventassero quasi autosufficienti sul piano energetico.
La diminuzione dei prezzi ha ridotto di parecchio le entrate fiscali algerine. Il Governo ha fatto ricorso alle riserve di valuta estera, accumulate negli anni precedenti, per mantenere il valore del dinaro, evitando spinte inflazionistiche. Anche i sussidi sono rimasti inalterati per alcuni mesi, ma la necessità di impedire ulteriori aumenti del debito pubblico e del deficit nel bilancio dello Stato ha obbligato le autorità a tagli importanti. Nell’ultimo anno la situazione è ulteriormente peggiorata. La pandemia ha determinato un crollo dei consumi di prodotti energetici e un ulteriore calo del prezzo del petrolio, che si mantiene su quotazioni molto inferiori a quelle necessarie a garantire il livello attuale di aiuti ai cittadini.
Le difficoltà economiche si affiancano dunque all’insofferenza verso la classe politica e i militari. Questi avevano rinunciato a candidare Bouteflika per un quinto mandato presidenziale, sotto la pressione delle manifestazioni di piazza. Alle elezioni del dicembre 2019, sulle quali hanno pesato il boicottaggio dell’hirak e la disillusione della gente, è risultato vincitore Abdel Madjid Tebboune. Già primo Ministro nel 2017, il nuovo capo dello Stato ha promesso riforme per rispondere alle richieste dei dimostranti. Ma i cambiamenti sono solo di facciata.
Lo slogan “separare i soldi dalla politica” è stato utilizzato per promuovere una riforma costituzionale, approvata per via referendaria lo scorso mese di novembre. Anche in questo caso, l’affluenza alle urne è stata molto bassa. La nuova Carta enuncia una serie di diritti e principi per favorire una maggiore etica della vita pubblica, la lotta alla corruzione e un miglior equilibro tra i poteri dello Stato. Ciononostante, i cambiamenti non intaccano la centralità della figura del presidente né il ruolo dei militari.
Numerosi manifestanti sono stati arrestati, ma le proteste non si fermano. Queste finora hanno mantenuto un carattere pacifico ed esercitano comunque una certa pressione sul pouvoir. Ma l’assenza di un’organizzazione e di una classe dirigente nel movimento impedisce di portare le rivendicazioni popolari a un livello che vada al di là della piazza e degli slogan. Resta tuttavia il pericolo che la rabbia aumenti, soprattutto se il quadro economico resterà difficile ancora a lungo, con il rischio di infiltrazioni di elementi radicali.
Anche in Algeria la gente chiede pane e libertà, avanzando rivendicazioni non molto diverse da quelle di altre masse arabe, stanche di oppressione e povertà. E anche nel Paese maghrebino la repressione delle classi dirigenti corrotte e inefficienti non si fa attendere. Restare insensibili alle necessità dei cittadini è però la scelta peggiore, soprattutto nell’epoca della comunicazione digitale, che permette connessioni prima impensabili e impedisce ai regimi di cucire del tutto la bocca agli oppositori.
Il presidente Tebboune dovrebbe essere più saggio, perché la regola del “tutto deve cambiare perché nulla cambi” poteva valere nel Gattopardo del principe di Salina, non certo nell’Algeria contemporanea.
Foto: france24.com
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