Proprio mentre la Giordania festeggia i cento anni dalla nascita, il Paese è ancora scosso dalla notizia del colpo di Stato sventato a inizio aprile. Le forze di sicurezza hanno arrestato diverse persone, sospettate di organizzare un complotto internazionale per destabilizzare il Regno. Il coinvolgimento del principe Hamzah, fratellastro del sovrano Abdullah II, ha sollevato dubbi sulla solidità dell’architettura istituzionale. A questo si aggiungono le difficoltà economiche, aggravate dalla presenza di una parte dei rifugiati siriani e dalla pandemia. Ciononostante, Amman rappresenta un attore imprescindibile nei delicati equilibri mediorientali, a cui nessuno intende rinunciare.
La Giordania è uno scherzo della storia. Il Paese sembra stato creato apposta per non essere autosufficiente sul piano economico. Poche le risorse naturali, così come la disponibilità di terre coltivabili. L’accesso al Mar Rosso è limitato alla zona di Aqaba, stretta fra le potenze israeliana e saudita.
L’Emirato di Transgiordania nacque esattamente un secolo fa per volere della Gran Bretagna, allora potenza mandataria nella Palestina appartenuta agli ottomani. Londra non aveva pensato inizialmente a un territorio autonomo al di là del Giordano. Ma quella parte di Medio Oriente, desertica e montagnosa, appariva ideale per dare soddisfazione alle aspirazioni degli hashemiti. Questi, sotto la guida dello sceriffo della Mecca, Husayn Ibn Ali, avevano condotto – durante la prima guerra mondiale – la rivolta araba contro il Sultano di Costantinopoli, fomentata proprio dagli inglesi. Londra aveva promesso la creazione di un grande Stato, sebbene si fosse già accordata con Parigi per spartirsi quei territori. Quando le reali intenzioni delle potenze europee emersero con chiarezza, gli hashemiti provarono a ottenere quanto promesso, senza riuscirvi. Ma il rischio di acquisire il controllo di un’area in preda a rivolte continue indusse i britannici a proporre a due figli di Ibn Ali, Faisal e Abdullah, rispettivamente la corona d’Iraq e la Transgiordania.
Acquisita l’indipendenza nel 1946, il Paese è stato coinvolto in tutte le vicende legate alla nascita dello Stato di Israele, con il quale ha firmato un trattato di pace nel 1994. Questo permise al padre dell’attuale monarca, re Husayn, di accelerare i programmi di riforme, per modernizzare il Regno e ridurre la sua dipendenza economica dall’estero. Il sovrano attuale ha continuato tali politiche, ma i miglioramenti di quegli anni sono stati eclissati dalla crescente difficoltà della classe dirigente di rispondere alle esigenze della popolazione. È dal 2013 che si promettono riforme per contrastare la corruzione dilagante nell’amministrazione pubblica e nel mondo politico, rafforzare le istituzioni rappresentative e tutelare meglio i diritti dei cittadini.
Le Primavere arabe avevano incoraggiato molti esponenti della società civile a chiedere cambiamenti profondi. Ma il prestigio del sovrano e il suo ruolo di custode della moschea di Al Aqsa a Gerusalemme avevano evitato manifestazioni di piazza violente. L’impegno ad avviare una nuova stagione di riforme è stato però disatteso. Su tale insuccesso hanno pesato i problemi economici strutturali del Paese, così come il conflitto nella vicina Siria, l’instabilità endemica dell’Iraq e la fragilità del sistema politico-istituzionale.
Già prima della pandemia, la crescita del Pil giordano era stagnante, inferiore al 2%. Una voce importante del bilancio dello Stato è rappresentata storicamente dagli aiuti internazionali, elargiti in larga misura dagli americani e dalle monarchie del Golfo. Molte famiglie vivono grazie alle rimesse dei loro congiunti che lavorano all’estero e il tasso di disoccupazione giovanile è tra i più alti del Medio Oriente. La pandemia ha aggravato il quadro economico. I proventi del settore turistico, che contribuivano al 18% della ricchezza, si sono improvvisamente azzerati e la ripresa delle attività sembra ancora lontana. Il debito pubblico è salito del 10% tra il 2019 e il 2020 e il calo del 12% delle rimesse accresce le difficoltà di molte persone.
Tali problemi si aggiungono alla difficoltà di ospitare 1,5 milioni di siriani, spesso sistemati in condizioni molto precarie. La Giordania è seconda solo al Libano in termini di percentuale di profughi rispetto alla popolazione. Si tratta di uno sforzo notevole per un Paese di poco più di dieci milioni di persone, con il 5% degli abitanti che vive al di sotto della soglia di povertà. La frustrazione dei cittadini è accresciuta dalla sfiducia nei confronti delle istituzioni, con particolare riferimento al Parlamento e al Governo. I continui cambiamenti nella composizione dell’Esecutivo sono solo espressione del tentativo individuare responsabili di facciata per una situazione di crescente stanchezza del Paese ad affrontare i problemi che lo affliggono.
Anche sul piano dei diritti civili e politici le promesse non hanno trovato realizzazione. Al contrario, la libertà di espressione subisce limitazioni sempre più frequenti, giustificate come necessarie a fronteggiare la minaccia dei gruppi radicali attivi nel Paese. Il Parlamento dispone di poteri limitati rispetto agli standard democratici e le inefficienze della pubblica amministrazione, corrotta e clientelare, pesano sulla vita quotidiana delle persone.
La Giordania sta dunque vivendo un momento di particolare difficoltà. Alle debolezze storiche del suo sistema politico ed economico di aggiungono le conseguenze del Covid-19. Il rischio è che il prestigio del re e la retorica paternalistica non siano più sufficienti a smorzare le rivendicazioni di una società civile, che resta ben organizzata e attiva. Eppure, nessuno auspica la destabilizzazione del Paese. Per l’Arabia Saudita, Amman costituisce un cuscinetto indispensabile, che separa la regione del Golfo dal pantano siriano. Lo stesso vale, almeno in parte, per Israele, che non vuole trovarsi con un ulteriore scenario da dover monitorare costantemente subito al di là delle sue frontiere. Abdullah II è inoltre un alleato fidato degli Stati Uniti, che non sono disposti a perdere un argine importante alle ambizioni egemoniche iraniane. Tutti sono interessati a fare in modo che il piccolo Regno hashemita non crolli sotto il peso delle sue debolezze antiche, in una regione dove di instabilità ce n’è già troppa.
Foto: viaggiandoconluca.it
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