Gli americani utilizzano l’espressione lawn mowning – falciare il prato – per indicare le fiammate di violenza, brevi ma intense, tra Israele e Hamas. Queste si ripetono ormai con cadenza quasi decennale, ricordando al mondo che le ferite di quella parte di Medio Oriente continuano a sanguinare. Lo scontro armato è necessario allo Stato ebraico per impedire che il gruppo politico e paramilitare palestinese si rafforzi troppo. l’obiettivo è di distruggerne infrastrutture e arsenali nonché decimandone i dirigenti. Stavolta, la guerra è stata utilizzata anche dal premier uscente Benjamin Netanyahu per ribadire la sua leadership sulla Destra, indebolita dalle accuse di corruzione. Dall’altra parte, Hamas utilizza il conflitto per compattare il fronte interno, convogliando verso Israele la rabbia di un popolo che, nella Striscia di Gaza, esso stesso contribuisce ad affamare e opprimere.

E, come sempre accade quando si scrivono pagine buie della storia del Medio Oriente contemporaneo, le opinioni pubbliche dei Paesi occidentali si dividono. Italia compresa. In queste settimane, lo scontro ideologico regna sovrano. Si affrontano le fazioni filopalestinesi, pronte a denunciare le nefandezze del regime sionista e l’apartheid ai danni degli arabi, e i gruppi filoisraeliani, che gridano ai quattro venti la scelleratezza dei terroristi di Hamas, che usano come scudi umani i loro figli. Tutto si riduce a un tifo da stadio, con tanto di slogan, bandiere e canti. A scapito dell’idea stessa che sia possibile costruire uno spazio per provare a comprendere le ragioni degli uni e degli altri. Il campo si divide in buoni e cattivi, vittime e carnefici, bianco e nero. Senza ammettere che la zona grigia di Primo Levi possa essere più ampia di quanto la faziosità permetta di vedere.

Il Medio Oriente però non è uno stadio. Non è utile né saggio continuare a interpretare quanto accade tra israeliani e palestinesi dal 1948 con le logiche del tifo per la squadra del cuore. È anche a causa di tale faziosità che la comunità internazionale, salvo rare eccezioni, non è mai riuscita a creare un clima veramente utile all’incontro e al confronto. A questo si aggiungono la propaganda e l’intransigenza delle componenti più radicali delle due comunità, sempre pronte ad alimentare il fuoco dell’odio e a sopraffare le voci favorevoli al dialogo.

Questa volta la crisi tra Israele e Hamas è durata solo undici giorni, rispetto alle sette settimane del 2014. Alla fine, si contano 250 morti tra i militanti e i civili palestinesi e 12 tra gli israeliani. Lo Stato ebraico ha colpito duramente con attacchi aerei e artiglieria pesante numerosi edifici strategici dell’organizzazione che controlla Gaza dal 2006. Hamas ha risposto con lanci di centinaia di razzi e colpi di mortaio verso le città israeliane. Arrivando ad attaccare Tel Aviv e la Galilea, in passato poste al di fuori della gittata dei suoi armamenti. Quasi tutti gli ordigni sono stati intercettati e distrutti dal sistema antimissilistico Iron Dome.

La tensione era in crescita dal mese di aprile, a causa di dispute immobiliari e fondiarie tra arabi ed ebrei nel quartiere di Shaikh Jarrah, nella parte orientale di Gerusalemme. Gli scontri si sono aggravati durante il mese sacro di Ramadan, quando la polizia israeliana ha limitato l’accesso dei fedeli musulmani alla Spianata delle Moschee.

Al di là delle motivazioni contingenti, questo nuovo episodio di sangue ha messo in luce tendenze consolidate nella regione e nell’atteggiamento dei principali attori internazionali. E cioè che le parti in campo ricorrono a tale valvola di sfogo per compattare il fronte interno. A questo si aggiunge il sostanziale disinteresse del resto del mondo. Gli Stati Uniti di Biden non sono andati oltre gli appelli tradizionali a cessare la violenza, confermando però l’appoggio a Israele, solo in parte mitigato dalla maggiore sensibilità dei democratici verso la condizione dei palestinesi. La voce dell’Unione Europea e delle cancellerie dei principali Paesi membri è passata inosservata. Così come le stanche liturgie delle Nazioni Unite, che ora più che mai mostrano i limiti di un’architettura istituzionale nata morta già nel 1945.

Due novità interessanti sono emerse in questo conflitto. Sul piano interno, Netanyahu ha dovuto fronteggiare per la prima volta la ribellione diffusa degli arabo-israeliani. Essi sono i discendenti di quei palestinesi, che decisero di non lasciare le loro case in seguito alla proclamazione dello Stato ebraico. La loro condizione è particolare: pur avendo il passaporto blu con l’emblema della menorah, sono cittadini ai quali è riconosciuto un catalogo di diritti meno ampio dei connazionali ebrei. Sono esonerati dalla leva obbligatoria, nel timore di rappresentare una sorta di quinta colonna dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania. Ma le loro condizioni di vita sono generalmente molto migliori delle persone amministrate da Hamas e dall’Autorità nazionale di Abu Mazen.

Il censimento del 2019 dice che ormai gli arabo-israeliani costituiscono poco più di un quinto della popolazione dello Stato ebraico. Il loro peso demografico si traduce, dal punto di vista politico, nell’importanza crescente dei partiti che li rappresentano alla Knesset. E, nel momento in cui tali partiti decideranno di abbandonare le loro posizioni aventiniane, potrebbero aprirsi scenari nuovi per la vita politica di Israele.

La seconda novità è legata all’atteggiamento dei sauditi e dei loro satelliti. Questa volta le capitali del Golfo non hanno nemmeno lanciato le tradizionali invettive retoriche verso il perfido regime sionista. La normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Emirati Arabi Uniti e Bahrain con Israele, avvenuta lo scorso anno nel quadro degli Accordi di Abramo, ha mostrato la sua solidità.

Le proteste formali non sono mancate, ma la sostanza della svolta del 2020 non è stata scalfita. Riad ha mantenuto un profilo basso e lo stesso vale per il Marocco, sebbene non siano mancate manifestazioni popolari a sostegno dei palestinesi. Questo dimostra che, già negli anni scorsi, l’appoggio ai fratelli oppressi dai sionisti era solo retorico e propagandistico, funzionale a cementare i legami tra Stati divisi su molte questioni. Ora è arrivata solo l’ufficialità del fatto che Israele è diventato un partner nel confronto dei regimi sunniti con l’Iran e le sue velleità egemoniche nonché un interlocutore sul piano economico e militare.

Quello che invece non accenna a cambiare è l’approccio ideologico alla questione israelo-palestinese da parte delle società occidentali. Tra l’altro, sapere di avere degli sponsor più o meno influenti all’estero, rende più spavaldi proprio quei gruppi che, nei due campi, alimentano la narrativa dello scontro. Al contrario, dovrebbero ricevere supporto le voci favorevoli al dialogo e alla convivenza pacifica, che pure non mancano in quelle contrade mediorientali. La faziosità che permea il dibattito sull’argomento non è certo la causa principale delle tensioni. Ma essa contribuisce ad avvelenare i pozzi e a riaccendere un conflitto, che si pensava divenuto stabilmente a bassa intensità.

Che fare dunque? Si può negare che i palestinesi abbiano diritto a vivere in pace nel quadro di un’organizzazione politica da loro scelta? Certo che no! Si può negare, allo stesso tempo, il diritto degli israeliani a vivere senza la continua paura di essere accoltellati per la strada o uccisi da un attacco kamikaze in un autobus? Certo che no!

Bisognerebbe partire da queste basi semplici, eppure sempre dimenticate, per armarsi del desiderio di dialogo, della voglia di incontrarsi e del proposito di emarginare gli estremisti per avviare un processo di pace che parta dal basso, dagli israeliani e dai palestinesi di buona volontà, lontano dai grandi vertici internazionali, tanto spettacolari quanto inutili. Utopia? Può essere. Ma è un fatto che persone così esistano nelle due comunità e possano essere i semi gettati nella terra buona della convivenza pacifica. Lontano dai tifosi da stadio e dai profeti di sventura.

Foto: aspeniaonline.it