Fino a poco più di due anni fa, l’Etiopia sembrava proiettata verso un futuro di grandi soddisfazioni. L’economia registrava tassi di crescita fra i più alti del mondo. Le tante infrastrutture in costruzione promettevano a milioni di persone un ingresso comodo nella modernità, facendo del Paese un hub regionale dell’energia e del commercio. Addis Abeba non nascondeva la sua ambizione di diventare una delle principali potenze militari del continente africano. Completava il quadro la nomina di Abiy Ahmed Ali alla guida del governo, ad aprile del 2018. Il premier si presentava alla nazione con la promessa di appianare le divisioni interne e di risolvere le dispute con i Paesi confinanti. Oggi quelle speranze di pace e di benessere sono un lontano ricordo. L’Etiopia è lacerata da scontri etnici e politici, che suscitano appetiti e preoccupazioni nelle potenze interessate al Corno d’Africa.
Nell’estate del 2018, la pace con l’Eritrea sorprese il mondo e valse al primo ministro il premio Nobel. Abiy prometteva pace e prosperità a un Paese di quasi 120 milioni di abitanti, dove coabitano 90 gruppi etnici, che parlano 80 lingue differenti. In passato, tale complessità aveva trovato un equilibrio nella coalizione del Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope. Questo si era costituito nel 1988, raccogliendo le principali formazioni politiche delle regioni del Tigrai, dell’Oromia, di Ahmara e del Sud. Il fattore comune era l’ostilità al regime dittatoriale di Menghitsu, al potere tra il 1977 e il 1991. Il Fronte è stato sempre dominato dai tigrini, fino a quando Abiy ha promosso un asse di governo basato su una stretta alleanza oromo-ahmara. Il premier decise quindi che i tempi erano maturi per chiudere l’esperienza del Fronte, dando vita a un’unica formazione politica di respiro nazionale, chiamata Partito della Prosperità.
L’emarginazione di Macallé, capoluogo del Tigrai, dalle stanze del potere di Addis Abeba ha suscitato il risentimento delle élites locali. Queste non hanno accettato i nuovi equilibri politici, determinati anche dagli scandali di corruzione e clientelismo dilagante, che avevano ormai esasperato i cittadini. Erano state proprio le manifestazioni popolari, soprattutto tra i gruppi di etnia oromo, a portare alle dimissioni di Hailé Mariam Desalegn. Il predecessore di Abyi aveva duramente represso le proteste, rafforzando il desiderio di novità e cambiamento. Ma dietro a tali aspirazioni si nasconde uno scontro più profondo sul modo di concepire lo Stato etiopico.
La Costituzione del 1995 è stata scritta secondo il principio del “federalismo etnico”. Il Paese fu riorganizzato secondo criteri di omologazione su base etnica, riprendendo in parte la sistemazione territoriale dell’Africa Orientale Italiana. Questo assetto politico-amministrativo si è rivelato incapace di rispecchiare la complessità sociale e culturale dell’Etiopia. Inoltre, sono state favorite le nazionalità più periferiche rispetto al centro dell’antico impero di Addis Abeba. Gli ahmara, che storicamente hanno rappresentato il gruppo dominante nella politica del Paese, hanno visto la loro egemonia sgretolarsi. Lo stesso è accaduto agli oromo, solo parzialmente raggruppati nella regione etnica dell’Oromia, anche se più compatti rispetto agli ahmara sul piano culturale. I grandi vincitori del nuovo assetto federale sono stati i tigrini, divenuti non a caso i principali oppositori dei disegni pan-etiopici di Abyi.
Lo scontro tra Addis Abeba e Macallé è quindi il prodotto di due visioni diverse dell’assetto del Paese. Da una parte, si collocano i sostenitori del federalismo etnico, che arriva a riconoscere il diritto di secessione delle nazionalità desiderose di raggiungere l’indipendenza. Dall’altra si posizionano le formazioni politiche più sensibili a un assetto capace di rispettare le autonomie e le peculiarità regionali, ma in un quadro dove le decisioni di base siano prese a livello centrale.
Il principale difensore delle autonomie locali è il Fronte Popolare di Liberazione del Tigrai (TPLF, secondo l’acronimo inglese). Questo ha rappresentato per decenni la forza egemone del quadro politico nazionale. L’equilibrio si è rotto dinanzi ai programmi di Abyi. Si è così aperta la strada verso il conflitto civile, di cui nessuno vuole parlare, pur avendo tutte le caratteristiche delle guerre interne agli Stati. L’occasione per passare dalla contrapposizione politica allo scontro militare si è presentata nella primavera del 2020. In quelle settimane, il governo decise di rimandare le elezioni federali e regionali a causa della pandemia di Covid-19. La scelta fu vissuta dai partiti ostili al premier come una scusa per dare luogo a una svolta autoritaria, temuta non solo dai tigrini, ma anche da alcune formazioni oromo. A Macallé si optò per la contrapposizione netta ad Addis Abeba, annunciando consultazioni locali, tenutesi nel mese di settembre.
La reazione del governo centrale è stata dura, con arresti, violenze della polizia e dell’esercito federale. Misure repressive e sostituzioni di persone ritenute potenzialmente contrarie alla linea governativa hanno interessato i vertici delle istituzioni nazionali e delle forze armate. Allo stesso tempo, sono state avviate operazioni militari contro il TPLF e la popolazione sospettata di appoggiare i gruppi armati ribelli. In questi mesi, si sono alternate fasi di stallo e furiosi combattimenti, senza che nessuno dei due contendenti riuscisse ad imporsi sull’altro. Al momento non è chiaro quali saranno gli sviluppi militari. Abyi ha fatto appello a difendere la capitale a tutti i costi dinanzi all’avanzamento degli avversari verso sud. Ma avanzamenti e ritirate veloci interessano entrambi i campi.
Il conflitto interno all’Etiopia non è privo di conseguenze in tutta la regione del Corno d’Africa e, verso nord, fino all’Egitto. Senza dimenticare gli interessi di Stati Uniti, Cina e Russia verso Addis Abeba. L’instabilità politica e le violenze interetniche suscitano il segreto compiacimento di Khartum e del Cairo. Le due capitali hanno infatti rapporti molto tesi con l’Etiopia a causa della Grande Diga del Rinascimento Etiopico, GERD secondo l’acronimo inglese. L’infrastruttura, in costruzione sul Nilo Azzurro dal 2011, è oggetto delle preoccupazioni di Egitto e Sudan, che temono una drastica riduzione della portata del fiume.
Le operazioni di riempimento del bacino, con una capacità di 13,5 miliardi di metri cubi d’acqua, sono oggetto di polemiche e minacce. Durante la stagione delle piogge, Addis Abeba ha avviato il programma per consentire alle centrali elettriche collegate alla diga produrre oltre 6 Gw di elettricità a pieno regime. Il Cairo e Khartum non hanno escluso di ricorrere alla forza, qualora il rischio di vedere i loro cittadini ridotti alla sete diventi concreto. I due Paesi dipendono quasi interamente dal Nilo per gli approvvigionamenti idrici e finora non sono riusciti a trovare un’intesa con Addis Abeba. Questa rivendica il diritto a sfruttare il fiume per i suoi programmi di sviluppo agricolo e industriale, lasciando spiazzati i vicini settentrionali. Essi erano ormai abituati a spartirsi la massa d’acqua, senza che l’Etiopia avanzasse pretese particolari. Ora la speranza è che il caos interno renda più malleabile Addis Abeba.
Dal conflitto in Etiopia cerca di trarre vantaggio anche l’Eritrea, che si è resa indipendente da Addis Abeba nel 1991. I Paesi sono stati in guerra tra il 1998 e il 2000 per questioni confinarie, con episodi periodici di violenza fino all’accordo del 2018. L’intesa sembrava aprire buone prospettive di pace e di sviluppo. L’accesso ai porti eritrei di Massaua e Assab è fondamentale per l’economia etiopica e molte comunità separate dal confine speravano di riannodare i rapporti interrotti nel passato. In realtà, l’entusiasmo iniziale aveva lasciato il posto a un crescente scetticismo circa la reale portata della pace. I valichi di frontiera non erano sempre aperti e i collegamenti aerei tra le due capitali non sempre disponibili.
Il conflitto tra Addis Abeba e Macallé è visto dalle autorità dell’Asmara come un’ottima occasione per approfondire i rapporti con l’Etiopia. Il presidente eritreo Isaias Afewerki spera di trovare nel potente vicino un partner economico per attenuare l’estrema povertà del suo Paese. Allo stesso tempo, l’Eritrea intende approfittare della situazione per combattere il TPLF. La sua dirigenza è infatti espressione di quella corrente di pensiero che continua a considerare l’Eritrea come una provincia ribelle. L’obiettivo è di riportare il territorio sotto il controllo di Addis Abeba e sotto la tradizionale influenza politica ed economica tigrina. Ecco perché truppe eritree hanno varcato il confine, per supportare le forze federali nell’offensiva contro il ribelli.
La crisi in Etiopia non lascia indifferenti le principali potenze. Gli Stati Uniti appaiono disorientati sulla posizione da assumere. Abyi è considerato come un interlocutore imprescindibile e come l’unico politico capace di assicurare la stabilità e continuare il programma di sviluppo, avviato nel 2018. Ma l’amministrazione democratica non vuole ignorare la questione delle violazioni dei diritti umani, imputate a entrambi i contendenti. Inoltre, gli americani hanno imposto sanzioni contro le forze armate eritree, il partito di governo e i principali esponenti del regime. Manca quindi una visione chiara nel modo in cui affrontare la crisi e sul ruolo americano nella gestione del conflitto.
Molto più chiara è la strategia della Cina a sostegno di Addis Abeba. L’Etiopia è un partner commerciale importante per Pechino e un pilastro per lo sviluppo della sua rete infrastrutturale, nota come Nuove Vie della Seta, in Africa orientale. A fine novembre, il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha visitato Addis Abeba, incontrando il suo omologo Demeke Mekonnen. Il viaggio ha un grande valore simbolico, perché Pechino esprime chiaramente il suo sostegno ad Abyi. Notizie non confermate riferiscono anche di forniture militari ad Addis Abeba, compresi droni da combattimento di fabbricazione cinese. Il Paese asiatico ha fatto grossi investimenti in progetti infrastrutturali in Etiopia. Le sue banche hanno finanziato la GERD per 1,8 miliardi di dollari e non sono certo disposte a vedere i loro capitali messi in pericolo dal caos.
Nella partita cerca di inserirsi anche la Russia, che a luglio ha firmato alcuni protocolli di collaborazione militare con l’Etiopia. Mosca ha proposto la vendita di armamenti e di sistemi antimissilistici simili a S-400, già fornito alla Turchia. Putin guarda con interesse all’Africa orientale, come possibile tassello del tentativo russo di estendere l’influenza verso i “mari caldi” e gli spazi oceanici. Con Khartum, Mosca sta cercando di negoziare un accordo, dato per certo fino a pochi mesi fa, per costruire una base militare a Porto Sudan. L’infrastruttura le consentirebbe di mettere piede nel Mar Rosso, ora sotto stretto controllo degli americani e dei loro alleati sauditi ed egiziani. Ecco perché alla Russia non interessa la destabilizzazione della regione, così come alterazioni nei rapporti di forza tra Etiopia e Sudan.
La crisi nel Paese più importante del Corno d’Africa, determinata da concezioni opposte del rapporto centro-periferia, trova sbocco nello scontro tra forze politiche emergenti e formazioni preoccupate di perdere un potere ormai consolidato. Le conseguenze regionali e internazionali sono evidenti e nessuna potenza interessata all’area per motivi politici, economici e geografici intende distogliere lo sguardo dall’Etiopia. Il suo ruolo di porta di accesso ai mercati in sviluppo dell’entroterra, le risorse naturali da sfruttare, il potenziale economico del Paese e la sua posizione fanno gola a tutti. E tutti vogliono difendere i loro interessi in quella stessa Etiopia che, dei sogni di grandezza di poco tempo fa, conserva ora solo un ricordo amaro.
Foto: vaticannews.va
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