Premessa: i lettori abituali già sanno che questo sito è frutto del mio interesse per i Paesi mediterranei e mediorientali e a tale parte del mondo, nei limiti delle mie conoscenze e capacità, intendo dedicare attenzione. Ma quanto accade in questi giorni in Ucraina è troppo importante per essere ignorato. Ecco perché mi permetto di aggiungere il mio modesto mattoncino al dibattito su una crisi che, se sfociasse in un conflitto armato, avrebbe profonde ripercussioni anche nei mari intorno all’Italia, già da tempo intasati dalle navi militari dei Paesi NATO e russe.
In questi giorni, la stanca narrativa sulla pandemia e sui suoi effetti politici, economici, sociali e su ogni aspetto della nostra esistenza ha visto irrompere un nuovo attore sul palco mediatico. Non si tratta di una di quelle comparse, che occupano la scena per pochi secondi, prima di sparire tra le profondità dell’oblio, come una meteora nel cielo estivo. Le caratteristiche dell’oggetto di dibattito sono tali da rispolverare qualche vecchia conoscenza di storia novecentesca e da solleticare la mente del pubblico, che torna indietro a fatti del passato recente o a epiche scene di film di guerra, tra le pianure sarmatiche e i fiumi ghiacciati dell’Oriente europeo.
È la crisi ucraina che, iniziata quasi vent’anni, irrompe nella quotidianità degli occidentali. In verità, pochi sembrano essere davvero in apprensione per il rischio di scontro tra le truppe di Mosca e di Kiev. I più sono forse preoccupati per gli aumenti del prezzo dei prodotti energetici, in primo luogo del gas, che da sempre schizza verso l’alto nei momenti di maggiore tensione internazionale. Già da alcuni mesi, stiamo facendo i conti con un’inflazione, che sembrava ormai un fenomeno di cicli economici passati, frutto dell’impennata della domanda di materie prime, a seguito dell’allentamento delle restrizioni per fronteggiare la diffusione del Covid. Ma è evidente che quanto accade in Ucraina non riguarda solo con il prezzo del pieno di benzina o la bolletta del gas, diventata un incubo per tante famiglie.
A tre ore di volo da noi, sembra impensabile che siano riemersi scenari di guerra, ormai sconosciuti alle generazioni cresciute nell’epoca dei viaggi aerei low cost e degli smartphone. Le immagini degli ucraini in fila per arruolarsi o intenti a maneggiare armi da guerra oppure dei carri armati russi ammassati nelle pianure innevate prossime al confine suscitano stupore. Certo, il mondo contemporaneo è pieno di conflitti. La sponda Sud del Mediterraneo e il Medio Oriente hanno scritto pagine molto dolorose della storia più recente, ma l’Europa appariva lontana da tali rischi. Agli osservatori più superficiali, sembrava che il continente, al di là di qualche occasionale attrito balcanico, fosse avviato verso le spiagge tranquille della fine della storia. Cioè di un’epoca in cui la ricerca del benessere, l’attenzione all’ambiente e la cura degli animali assurgono ad aspirazioni massime della società, a scapito dell’appartenenza nazionale e dei desideri di potenza e dominio.
La crisi ucraina è un brusco ritorno alla Storia. È la dimostrazione che una parte consistente del mondo, anche molto vicina a casa nostra, vive secondo logiche diverse dai valori che, a torto, pensiamo essere universali. Queste ore di tensione mostrano quanto la geopolitica sia più che mai utile a leggere e comprendere il nostro tempo. Perché il rischio di guerra tra Mosca e Kiev ci parla in realtà di interessi molto più estesi dei territori contesi e di partite che le grandi potenze o quelle che si credono tali hanno ancora intenzione di giocare. L’Ucraina, descritta come una delle due parti che si oppongono, è in realtà una pedina nelle relazioni tra Stati Uniti e Russia, alle prese con un nuovo capitolo della loro secolare contrapposizione.
La concatenazione degli eventi che gli storici del futuro saranno chiamati a ricostruire nella loro ineluttabile logicità aiuta a capire come mai si ritorni a parlare di rischi di guerra in Europa. Era il 2004 quando, all’indomani delle elezioni presidenziali di novembre, i cittadini scesero in piazza per contestare la vittoria del candidato filorusso Viktor Janucovyč. Lo sfidante, Viktor Juščenko, fece appello ai suoi sostenitori affinché manifestassero per chiedere la ripetizione della votazione, a causa di gravi brogli elettorali. Le proteste furono descritte come “rivoluzione arancione” dal colore adottato da Juščenko. Dopo un lungo braccio di ferro, la Corte Suprema annullò il risultato delle elezioni, che furono ripetute a fine dicembre e videro la sconfitta del candidato vicino a Mosca. Questi però vinse le consultazioni del 2010 e restò in carica fino al 2014, quando una nuova ondata di proteste culminò con la cacciata del presidente.
Janucovyč, pur mantenendo solidi rapporti con Mosca, aveva cercato di avvicinarsi all’Unione Europea per fronteggiare la crisi del suo Paese. Politiche economiche inappropriate, unite alla corruzione dilagante e alla cattiva gestione, avevano impoverito l’Ucraina, che già si trovava in fondo alle classifiche continentali per crescita del PIL e reddito pro capite. Kiev e Bruxelles stavano negoziando un accordo di associazione. In cambio di consistenti aiuti economici, l’Ucraina si impegnava a varare profonde riforme, capaci di incidere in profondità nel tessuto sociale, promuovendo la trasparenza, lo Stato di diritto, il riconoscimento delle libertà civili e politiche, la concorrenza e la libertà d’impresa. Tali misure dovevano essere accompagnate da un progressivo sganciamento dall’orbita di Mosca, che non aveva mai rinunciato a ritirare la sua longa manus dalla politica ucraina.
Alla fine, Janucovyč cedette alle pressioni del Cremlino e non firmò l’accordo, seminando la rabbia tra i cittadini, che già aspettavano i miliardi promessi. La Russia approfittò della situazione di disordine e, dopo aver rifiutato di riconoscere il nuovo governo ad interim, con un colpo di mano occupò la Crimea, accusando americani ed europei di orchestrare una rivoluzione con il solo scopo di danneggiare Mosca. Questa ha poi continuato a sostenere gruppi indipendentisti e filorussi, attivi nelle regioni di Donec’k e di Luhans’k, nell’Ucraina orientale, contro i tentativi di Kiev di ristabilire la sua piena sovranità. Varie tornate di negoziati e sanzioni non hanno spento un conflitto che, dal 2014, è stato definito “a bassa intensità” perché, pur avendo provocato distruzioni consistenti e più di 10.000 vittime, non è mai sfociato in guerra su larga scala.
I dettagli di tali vicende hanno riempito le pagine dei giornali a fasi alterne. Quando nuove fiammate di violenza sembravano preludere a svolte politiche o nuove sanzioni alla Russia e ai suoi alleati ribelli apparivano come rigurgiti di una guerra fredda mai terminata. Ma l’attenzione degli occidentali per quell’area si era lentamente affievolita, fino alle ultime settimane. Le imponenti esercitazioni militari russe non lontano dalla frontiera ucraina e in territorio bielorusso, così come l’accumulo di truppe e armamenti ai confini e l’arrivo di molte navi militari nel Mediterraneo e nel Mar Nero appaiono come manovre di accerchiamento. Un attacco assumerebbe le caratteristiche di un’aggressione alla sovranità e all’unità territoriale di Kiev. Questa ipotesi sconcerta chi rteneva che tale scenario fosse ormai relegato al passato, dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale, provocata dall’aggressività della Germania hitleriana.
Nei prossimi giorni potrebbe accadere di tutto e l’ipotesi di un conflitto armato, per quanto improbabile, non può essere esclusa. Ma cosa spinge Mosca a correre tale rischio? Perché di un rischio si tratta. Uno scontro sarebbe accompagnato da una scia di sangue e devastazioni, che difficilmente troverebbe il sostegno di altri Paesi. La Russia, magari con la complicità di Minsk, apparirebbe come un aggressore, dagli appetiti pericolosi per la pace e la sicurezza internazionale. Questo compatterebbe gli occidentali, finora incapaci di definire un approccio univoco al problema, a causa di interessi e storie nazionali solo in parte coincidenti, intorno agli Stati Uniti. E per Washington sarebbe facile giustificare una crescente pressione su Mosca dal territorio degli alleati della NATO in Europa orientale. Inoltre, le comunità nazionali russa e ucraina percepiscono loro stesse come legate da legami antichi e profondi e appare difficile immaginare che siano disposte a spararsi contro.
Nelle ultime ore, si sono intensificati gli sforzi della diplomazia. Le visite a Kiev e a Mosca del presidente francese, Emmanuel Macron, e del cancelliere tedesco, Olaf Scholz, mirano a favorire il dialogo tra le parti. Oggi sarà la volta del ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio. Anche i contatti diretti tra russi e americani continuano. Vladimir Putin ha dichiarato che la Russia è pronta a negoziare, mentre il presidente ucraino, Volodymyr Zelenskyj, afferma di essere disponibile a fare ampie concessioni a Mosca. Sembrano dunque essere maturate le condizioni per abbassare la tensioni e lasciare più spazio alla diplomazia.
Ma qual è la posta in gioco? E perché la Russia agisce in questo modo? Per rispondere a tali domande è necessario rispolverare le parole di George Frost Kennan, ambasciatore e studioso di scienze politiche statunitense, morto ultracentenario nel 2005. Kennan fu vice-capo della missione americana a Mosca tra il 1944 e il 1946 e, nella storia delle relazioni internazionali, è ricordato per il Long Telegram, inviato al segretario di Stato di allora, James Byrnes. Nel documento di circa 5.300 parole, il diplomatico sottolineava la necessità per gli Stati Uniti di cambiare approccio perso l’Unione Sovietica. Dopo gli anni della collaborazione di guerra, Kennan riteneva che Washington dovesse tenere conto dell’azione del Cremlino, dettata solo “dalla tradizionale e istintiva insicurezza russa”, alla base della paura sovietica verso il mondo esterno, alimentata anche per giustificare, sul fronte interno, i sacrifici richiesti ai cittadini da Stalin nel dopoguerra.
Queste idee gettarono le basi per la dottrina Truman, in base alla quale Washington si impegnava ad aiutare i popoli liberi “che resistono al tentativo di soggiogamento da parte di minoranze armate o di pressioni dall’esterno”. Era la prima formulazione del containment dell’Unione Sovietica e del suo tentativo di spostare quanto più a Ovest possibile la linea di sicurezza che la separava dal mondo capitalista, percepito come ostile e pronto in ogni occasione ad abbattere il regime comunista. L’avanzamento dell’Armata Rossa durante il secondo conflitto mondiale aveva segnato la geografia di quella che, durante la guerra fredda, sarebbe stata la cortina di ferro estesa da Stettino sul Baltico a Trieste sull’Adriatico.
Con l’implosione sovietica all’inizio degli anni Novanta, sembrò che tutto questo fosse destinato all’oblio. In realtà, è venuta meno l’ideologia comunista, ma non l’atavico senso di insicurezza dei russi. Questo è acuito dal progressivo ingresso nella NATO di quasi tutti gli antichi satelliti di Mosca dell’Europa orientale. In tali Paesi, soprattutto in Polonia e in Romania, i sentimenti russofobi affondano le radici in secoli di scontri e dominazioni. Ecco perché essi premono affinché Washington adotti un atteggiamento quanto più intransigente possibile anche nei giorni della crisi ucraina. Da parte loro, gli apparati dello Stato profondo americano non hanno abbandonato l’idea che la Russia, qualora fosse liberata dalla pressione costante esercitata tramite la NATO, non esiterebbe a risvegliare i suoi appetiti europei. E gli Stati Uniti, sempre più impegnati nel confronto con la Cina, non sono disposti a lasciare che l’Europa, la perla del loro impero globale, sia esposta a rischi.
Dinanzi al pericolo di vedere un giorno l’Ucraina nell’Alleanza Atlantica, magari insieme alla Georgia e all’Armenia, e la Bielorussia che guarda con interesse e curiosità verso Occidente, Mosca ha reagito. Il rischio, per quanto remoto, è intollerabile per il Cremlino. Questo significherebbe avere gli americani lungo tutti i suoi confini europei. Già l’ingresso delle Repubbliche baltiche nella NATO e nell’Unione Europea è stato mal digerito. Ma vedere Kiev e Minsk nell’orbita occidentale è semplicemente inconcepibile per Mosca. Da tali considerazioni derivano tutte le tensioni degli ultimi anni e i rischi di guerra degli ultimi giorni.
Da parte sua, Washington sembra non rendersi conto che già lo spostamento verso Est del perimetro antirusso sia un successo. La linea di sicurezza del Cremlino non è mai stata così vicina a Mosca. Ciononostante, spostarla addirittura nel “giardino di casa” della Russia è proprio troppo. Ventilare l’ipotesi di ingresso di Kiev nella NATO, nonostante le smentite di tutti i leader occidentali, non è utile a nessuno. Ultimamente si parla di “finlandizzazione” dell’Ucraina, cioè di rendere il Paese neutrale, magari sempre in bilico tra Mosca e Washington. Una soluzione del genere permetterebbe a entrambi i contendenti di cantare vittoria. Gli americani avrebbero impedito che i russi continuino a considerare Kiev come “roba loro” e i russi avrebbero impedito di vedersi la NATO alle porte di casa. Nessuna delle due potenze ci perderebbe la faccia e un minimo di stabilità sarebbe ripristinato da quelle parti. Con buona pace della pedina ucraina.
Foto: ansa.it
Fonti e approfondimenti
Questo articolo è concepito come un editoriale più che come un saggio, frutto delle mie conoscenze e riflessioni nonché della lettura della stampa quotidiana, alla quale si rimanda per la descrizione puntuale degli sviluppi della crisi.
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