“Il mondo si sta facendo sempre più complicato e sempre più pericoloso. E l’Italia, per vari decenni, si è potuta permettere di non riflettere sul proprio interesse nazionale, approfittando della sua rendita di posizione”. Con queste parole, il professor Giovanni Orsina, direttore della School of Government della LUISS di Roma, ha concluso il suo intervento al convegno L’Italia contro il fardello dei suoi stereotipi, organizzato il mese scorso dal think tank ItalyUntold, di cui faccio parte.
In due frasi, Orsina lancia un allarme, che più volte, nel mio piccolo, ho cercato di rendere evidente, proprio in queste pagine. E cioè che il nostro Paese non sfuggirà a un inesorabile declino se continuerà ad agire senza un’idea chiara degli interessi da difendere e perseguire. L’aggressione della Russia ai danni dell’Ucraina ha solo reso più urgente che la collettività nazionale acquisisca tale consapevolezza. Perché il tempo delle illusioni è finito. Il barometro della storia, che in Europa occidentale pensavamo rotto con la lancetta inchiodata su “bel tempo”, segna ormai “tempesta” anche intorno a casa nostra. Prima ne prendiamo atto e meglio è. Eviteremo a noi stessi e alle generazioni di domani un risveglio brusco e amaro. Come tante altre volte nei destini d’Italia, il suo futuro si comincia a scrivere tra le onde del Mediterraneo.
Tra la fine dell’ultima guerra mondiale e il 1989, il Belpaese ha viaggiato senza pagare il biglietto sull’autobus delle potenze occidentali. Il controllore americano è stato sempre indulgente con noi, permettendoci di continuare la corsa senza il titolo di viaggio. In verità, Washington si è mostrata benevola anche verso i nostri vicini. Gli Stati Uniti hanno preferito che le province europee del loro impero, conquistato sulle spiagge della Normandia e tra la neve delle Ardenne, sotterrassero l’ascia di guerra. Secoli di massacri fratricidi dovevamo essere dimenticati, per dedicarsi alla crescita economica e al miglioramento della qualità della vita. Gli affari imperiali sono roba da grandi potenze, adatta ai giganti americano e sovietico, non certo per i piccoli Stati litigiosi del vecchio mondo.
Washington ha preferito accollarsi i costi per la difesa dei suoi alleati, pur di limitare le loro velleità. Francesi e inglesi, che sembravano non aver recepito il messaggio, impararono la lezione a suon di legnate, durante la crisi di Suez. In quelle settimane concitate della fine del 1956, Mosca minacciò di intervenire a fianco dell’Egitto nasseriano, anche con l’arma nucleare, se necessario. Da parte loro, gli americani non nascosero l’irritazione per un’iniziativa considerata espressione anacronistica degli appetiti di vecchie potenze coloniali. Tali comportamenti non erano accettabili nel quadro della dialettica e della competizione tra le due superpotenze vincitrici della Germania nazista. Per quasi mezzo secolo, dunque, la parte di mondo che aveva generato due conflitti mondiali in vent’anni ha conosciuto il benessere delle democrazie capitaliste, sotto la protezione dell’aquila a stelle e strisce, e l’illusione dell’uguaglianza sociale, esportata dall’orso moscovita.
Per l’Italia, tale situazione si è rivelata lo scenario migliore che potesse capitare. Un tempo di ricreazione, dopo gli affanni per sedere tra le grandi potenze senza averne le caratteristiche e le amarezze della guerra perduta. Sotto la guida democristiana e, successivamente, con il contributo di parte dei socialisti, il Paese si è potuto dedicare alla ricostruzione. Il rilancio del suo sistema produttivo ha assorbito risorse, che in altre epoche lo Stato avrebbe dovuto investire in navi e cannoni. La bellicosità di facciata del ventennio fascista poteva essere dimenticata, lasciando spazio a quell’anima mercantilista che, in pochi anni, avrebbe fatto dell’Italia la seconda potenza manifatturiera del continente e un grande esportatore di beni.
Roma non si è preoccupata troppo per la difesa, grazie all’ombrello protettivo americano, reso evidente dalle basi militari sparse per il territorio nazionale. La posizione al centro del Mediterraneo e il confine con la Jugoslavia, prima allineata a Mosca e poi realtà comunista sui generis, facevano dell’Italia una pedina del campo occidentale di cui era impossibile dimenticarsi. Da tale considerazione dipesero anche l’ingresso nell’Alleanza atlantica e la successiva partecipazione alla NATO, che è il suo dispositivo militare integrato. Per la verità, fu Parigi a spingere per la partecipazione dell’Italia, che non era stata nemmeno invitata ai negoziati per redigere il trattato istitutivo. La Francia temeva infatti che l’organizzazione fosse troppo sbilanciata verso l’oceano, lasciando scoperto lo scacchiere mediterraneo.
Le logiche del confronto bipolare e l’importanza strategica del nostro Paese fecero nascere in una parte della classe dirigente un’idea degna della machiavellica ingegnosità italiana. Gli Stati Uniti avrebbero tollerato qualche giro di walzer con Mosca e limitate iniziative, non proprio conformi all’ortodossia occidentale. L’obiettivo era di accrescere il peso geopolitico dell’Italia, anche nella veste di ponte tra i blocchi, e gli spazi per le imprese. È questa la base concettuale del neo-atlantismo di Fanfani, Moro, Gronchi e Mattei e, qualche decennio più tardi, della politica estera di Andreotti e Craxi. Le aree privilegiate per l’applicazione di tale approccio erano il mondo arabo e alcuni Paesi del blocco orientale, dove l’Italia fu protagonista di numerose iniziative diplomatiche. Ciononostante, mancò un carattere di sistematicità e la vorticosa alternanza delle compagini ministeriali della prima Repubblica, unita alla cronica mancanza di risorse, fecero in modo che i risultati raggiunti fossero piano piano dispersi.
Con l’implosione dell’Unione Sovietica, Roma ha perso le certezze rassicuranti dell’equilibrio del terrore e la rendita di Paese di frontiera da tutelare e tollerare. Ci siamo trovati improvvisamente in un mondo imprevedibile e difficile da interpretare. Fino ai primi anni del nuovo millennio, le cose sono però andate bene nel complesso. L’inaspettata vittoria americana nel confronto con i sovietici aveva reso gli Stati Uniti unica realtà imperiale, chiamata a gestire un sistema internazionale in rapido cambiamento. La Cina muoveva i primi passi verso una crescita destinata a tramutarsi in sfida alla supremazia americana. La Russia è stata impegnata per anni a rimuginare sull’ingombrante eredità del suo passato recente.
Quanto a noi, ci siamo illusi che la storia fosse ormai soltanto una materia scolastica, alla quale dedicare sempre meno spazio nei programmi ministeriali. Nella cornice dell’Unione europea, eravamo convinti che, superati gli anni difficili della crisi economica e dei debiti sovrani e il dramma della pandemia di Covid-19, il futuro prossimo fosse pronto per l’alba radiosa della transizione ecologica e del rafforzamento dei diritti individuali. Niente di più sbagliato. L’invasione russa dell’Ucraina ha cancellato di colpo il candore post-storico imperante. Ci siamo resi conto che del gas ne abbiamo bisogno. Nonostante le belle parole su un’economia più sostenibile, l’industria italiana non può prescindere dalle materie prime. Abbiamo capito che una fetta consistente di mondo non ha elevato il nostro modello sociale a sistema ideale da imitare.
Che fare quindi? In un quadro internazionale che diventa visibilmente più insicuro ogni giorno che passa, mettersi in posizione di attesa, non sapendo come comportarsi, è una scelta nefasta. Dobbiamo evitare il piccolo cabotaggio delle decisioni prese solo per fronteggiare le emergenze, sempre a scapito di una visione strategica. Sapere quello che vogliamo e lavorare per raggiungere e difendere degli obiettivi è caratteristica di ogni Paese che voglia definirsi tale. In Italia, il concetto di interesse nazionale, nella psicologia collettiva, è ancora associato all’involuzione autoritaria del pensiero borghese, che produsse il fascismo. Riflettere su questo argomento comporta sempre il rischio di essere etichettati come nostalgici delle nefandezze di quegli anni lontani. Non c’è atteggiamento più sciocco di questo. Questa sorta di autocensura generale finisce per sfociare in sottile razzismo verso noi stessi, impedendoci di intraprendere una riflessione seria e serena su quello che vogliamo come Paese.
Gli altri Stati, compresi quelli che hanno responsabilità storiche molto più pesanti di noi rintracciabili nel passato recente, non si pongono minimamente il problema. Essi fissano delle priorità e degli obiettivi, modulando la propria azione internazionale di conseguenza. Né si sognano di affidare agli alleati e ai partner il compito di agire in loro nome. Pensare che esista uno spirito caritativo al quale attingere per benevola disponibilità degli altri è sbagliato e ispirato a un certo candore. Eppure, Roma spesso ritiene o spera che a risolvere i suoi guai siano gli Stati Uniti, l’Unione europea, i francesi o i tedeschi, a seconda delle esigenze. Questo è dovuto anche a una certa fragilità delle istituzioni (con l’eccezione del Quirinale e dell’intelligence), oltre che ai motivi sopra indicati. Fatto sta che continuare con questo atteggiamenti ci espone a rischi molto rilevanti.
Il primo passo per evitare un futuro alla mercé di attori esterni, magari mossi da intenzioni ostili o semplicemente impegnati a salvaguardare i loro di interessi, è capire cosa serva all’Italia. Nonostante decenni di delocalizzazioni, di assenza di politiche industriali serie e lungimiranti, di vincoli di ogni tipo capaci di scoraggiare tanti investimenti, restiamo una potenza manifatturiera con una forte vocazione all’esportazione. Ma siamo anche praticamente privi di materie prime. La crisi del gas di queste settimane ce lo ha sbattuto in faccia senza pietà. Ma non sono solo i combustibili a contare per il funzionamento del sistema produttivo. Servono minerali di ogni tipo, compresi i metalli e le terre rare, indispensabili per la produzione hich-tech, così come i prodotti del settore primario. Ad esempio, è passata quasi inosservata la notizia che il distretto toscano della produzione di carta vive grosse difficoltà a causa della carenza di pasta di cellulosa.
Il secondo Paese industriale d’Europa ha dunque interesse a garantire la continuità delle forniture di materie prime e delle catene del valore. Già la pandemia ha messo in evidenza che l’insieme di passaggi per trasformare la materia prima in prodotto finito è tanto più vulnerabile quanto più le attività del ciclo produttivo si svolgono in realtà geograficamente distanti. L’Italia deve quindi agire con gli Stati esportatori di materiali necessari all’industria per evitare shock improvvisi nell’offerta di componenti essenziali al funzionamento del sistema produttivo. La guerra in Ucraina ha reso palese quanto poco lungimiranti siano state le politiche degli anni passati, che hanno fatto del nostro Paese un importatore di quasi 30 miliardi di metri cubi di gas all’anno dalla sola Russia. Le missioni istituzionali in vari Stati africani, nel disperato tentativo di sostituire le forniture da Mosca, sono la dimostrazione plastica che tendiamo ad agire solo in caso di emergenza.
Differenziare i portafoglio dei fornitori di prodotti energetici e di altre materie prime è quindi primario interesse nazionale. A questo bisogna aggiungere la possibilità di esportare liberamente i nostri manufatti. Siccome il 90 % del commercio mondiale viaggia per mare, l’Italia morirebbe subito senza libero accesso al mare. Già la collocazione in un bacino semichiuso come il Mediterraneo ci espone a rischi maggiori degli Stati con affaccio oceanico. Nel marzo del 2021, il blocco del canale di Suez perché una grande portacontainer si incagliò, ostruendone il passaggio, rese evidente tale vulnerabilità, così come i rischi legati alle catene di valore allungate a dismisura negli anni.
I colli di bottiglia o choke point controllati da potenze a noi avversarie o addirittura ostili sono un grande problema. La Libia ne è un esempio. L’antica colonia italiana, dopo la fine del regime di Muhammar Gheddafi, è diventata oggetto delle mire egemoniche della Turchia e della Russia. Ankara ha cominciato a mettere radici in Tripolitania, proprio quando Roma ha risposto con il silenzio alle richieste di aiuto di Fayez al Sarraj. Il suo governo, tra aprile e dicembre del 2019, ha rischiato di essere rovesciato perché travolto dalle truppe cirenaiche di Haftar. I turchi inviarono uomini e armamenti, raccogliendo i frutti in termini di influenza quando, proprio grazie al loro contributo, il piano del generale fallì. Mosca fa invece ampio ricorso ai mercenari del gruppo paramilitare Wagner per mantenere la sua influenza nella Libia orientale.
Tali Paesi non sono proprio amici dell’Italia. La Turchia mira a rafforzare la sua proiezione mediterranea, applicando la dottrina della Patria blu o Mavi Vatan, e non sembra disposta a lasciare spazi liberi a chi non sa controllare i suoi mari. Per quanto riguarda la Russia, non c’è bisogno di aggiungere dettagli al braccio di ferro ingaggiato con l’Occidente per la situazione in Ucraina. Roma non può permettersi di avere i suoi nemici a poche miglia nautiche dalla Sicilia, con il rischio che ci troviamo all’improvviso chiusi dentro e senza possibilità di movimento.
Ecco perché disporre di una flotta adeguata e della volontà di utilizzarla è fondamentale. La nostra Marina è fatta di professionisti e navi sempre più moderne. Ciononostante, la qualità non basta a coprire le carenze quantitative e le crescenti esigenze operative. La flotta sta diventando più piccola anno dopo anno e gli effettivi, poco sotto le 30.000 unità, non sono paragonabili all’organico di altri Stati rivieraschi. Piccolo non è bello, almeno in questo caso. Avviare un programma di rafforzamento, aumentando navi e marinai, non è cosa per ammiragli desiderosi di giocare alla battaglia navale. Si tratta certamente di costi notevoli per il contribuente, ma continuare a considerare le forze armate come retaggio di un passato che non c’è più è sbagliato. E queste settimane di guerra in Ucraina ne sono la dimostrazione.
L’Italia si trova dunque a un bivio. Dobbiamo scegliere tra l’alternativa di navigare a vista in un mare sempre più agitato e la consapevolezza che il nostro posto nel mondo va difeso senza aspettarci che siano gli altri a farlo per noi. L’appartenenza all’Unione europea e alla NATO non è negoziabile. Siamo parte integrante di un sistema di alleanze che fa capo agli Stati Uniti. Ed è sciocco o in malafede chi vaneggia di autodeterminazione, intesa come possibilità di prendere decisioni prescindendo dai nostri partner. È ugualmente folle chi ipotizza l’ingresso di Roma nell’orbita cinese, di cui la Russia dissanguata dalla guerra finirà per diventare primo satellite.
La soluzione però è a portata di mano. Dobbiamo capire di cosa abbiamo bisogno e impegnarci a raggiungerlo. Queste pagine sono un modesto spunto di riflessione per tracciare la strada. Anche perché solo assumendoci responsabilità concrete la nostra voce verrà ascoltata dagli alleati, soprattutto a Washington. Altrimenti possiamo stare certi che il declino o bruschi risvegli sono già scritti nel nostro futuro. La ricreazione è durata fin troppo. Adesso possiamo anche farlo uno sforzo serio per diventare finalmente adulti e agire come tali in un mondo dove si addensano nubi sempre più cupe.
Foto: babilonmagazine.it
Fonti e approfondimenti
Questo articolo è concepito come un editoriale più che come un saggio, frutto delle mie conoscenze e riflessioni nonché della lettura della stampa quotidiana, alla quale si rimanda per la descrizione puntuale degli sviluppi della crisi.
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