Errare humanum, perseverare autem diabolicum. Ed è proprio l’indugio nell’errore evocato dal brocardo a sconcertare di più riflettendo sui rapporti tra l’Italia e la Libia. Queste parole latine descrivono al meglio l’atteggiamento del nostro Paese verso l’antica colonia nordafricana. Dalle prime proteste contro il regime di Muhammar Gheddafi del febbraio 2011 a oggi, Roma si è impantanata in una palude fatta di sbagli, disinteresse e superficialità tale da escluderci quasi del tutto dalla partita tra attori locali e potenze straniere in corso in Libia. Eppure, quella che fu la Quarta sponda resta di fondamentale importanza per l’Italia. Questioni migratorie, contrasto alle formazioni jihadiste infiltrate dal Sahel, forniture energetiche e sicurezza geopolitica sono solo i temi più evidenti. Si tratta di sfide talmente rilevanti da imporci attenzione verso la Libia. Il terreno perduto è tanto, ma risalire la china è possibile e necessario.

È difficile mettere insieme una serie così lunga di errori politici e diplomatici in un singolo dossier, con ricadute evidenti di ordine strategico. Eppure, ci siamo riusciti proprio nei rapporti con Tripoli. Tanto che abbiamo dilapidato il patrimonio di influenza politica e peso economico costruito dopo la disastrosa campagna nordafricana durante l’ultimo conflitto mondiale. Nonostante le periodiche fiammate di retorica antitaliana di Gheddafi, eravamo il principale punto di riferimento politico ed economico della Libia.

Già nel 1956, a poco più di un decennio dalla fine della guerra, Roma e Tripoli erano giunte alla firma di un trattato di cooperazione. I due Paesi gettavano le basi per la partnership economica e per la regolazione delle questioni pendenti. Queste derivavano soprattutto dalla risoluzione delle Nazioni Unite del 15 dicembre 1950, che aveva sancito l’indipendenza dell’antica colonia. All’epoca regnava re Idris dei Senussi, deposto dal colpo di Stato gheddafiano del 1969. L’espulsione degli italiani nell’anno successivo provocò una ferita profonda, che impiegò molto tempo a rimarginarsi. Anche se gli strascichi di quella pagina drammatica e le storie dolorose di tante persone buttate fuori all’improvviso dalle loro case arrivano fino a oggi. Ciononostante, l’economia libica, soprattutto nel settore petrolifero, non poteva prescindere dal know how delle imprese italiane e dall’appoggio politico de facto proveniente da Roma.

Il 2008 rappresentò il punto più alto nei rapporti tra i due Paesi mediterranei, con la firma del trattato di amicizia, partenariato e cooperazione. È il tentativo di dare carattere strutturale alle relazioni bilaterali, lasciandosi anche alle spalle in maniera definitiva il passato coloniale. Lo spartiacque è però il 2011. Le proteste popolari travolsero il regime quarantennale di Gheddafi, poi ucciso a ottobre, con un’eredità di sangue e di caos dalla quale il Paese stenta ad affrancarsi. In quelle settimane convulse, il presidente francese, Nicolas Sarkozy, intravide un’opportunità inaspettata: sostenere i manifestanti per accreditarsi come nuovo punto di riferimento di una Libia libera e democratica. Il piano, intriso di neocolonialismo e appoggiato dagli inglesi e con il benevolo silenzio americano, vedeva l’Italia come potenza da scalzare.

La prospettiva di ricche concessioni petrolifere e consistenti appalti per la ricostruzione aveva suscitato gli appetiti di Parigi e Londra, mai del tutto rassegnate ad aver perso il ruolo di grandi potenze. La volontà di proteggere la popolazione civile fu il pretesto per istituire una no-fly zone e per bombardamenti alle infrastrutture del regime libico sotto l’ombrello della NATO. In quei giorni, l’Italia non riuscì ad assumere una posizione a difesa dei propri interessi, che l’intervento anglo-francese chiaramente danneggiava. Da Roma giunse una passiva acquiescenza alle scelte di altri, dettata dalla paura di apparire come alleati del dittatore libico, che sparava sui civili, e dalla debolezza del governo Berlusconi IV, di lì a poco travolto dalla crisi dello spread. Quello che seguì è ampiamente noto, con il Paese nordafricano precipitato nell’anarchia e la lotta dei soggetti più diversi per accaparrarsene le ricchezze.

Questa rapida ricostruzione storica vuole mettere in evidenza i limiti dell’atteggiamento italiano come preludio ad anni di sostanziale disinteresse. Quasi una mesta rassegnazione dinanzi alle convulsioni di un Paese preda di fazioni tribali, organizzazioni terroristiche e rispettivi sponsor esteri. L’appoggio ai tentativi delle Nazioni Unite di trovare una soluzione politica al caos, che portò agli accordi di Skhirat del 2015 è stato sempre poco convinto, quasi d’ufficio. Così come il sostegno al governo formatosi a Tripoli grazie a quelle intese e riconosciuto dalla comunità internazionale. Quando Khalifa Haftar, signore della guerra della Cirenaica, appoggiato da russi, egiziani ed emiratini, più volte ha tentato di impadronirsi del potere, Roma ha indugiato. Dinanzi all’indecisione sulla parte con cui schierarsi, l’Italia ha continuato a perdere terreno e credibilità.

Nella primavera del 2019, un altro passo falso ha assunto i caratteri dell’errore quasi esiziale. Erano i giorni dell’assedio di Tripoli da parte delle forze leali ad Haftar, nel tentativo più violento di ascendere al trono di nuovo rais libico. Il primo ministro del governo di unità nazionale, Fayez al Sarraj, oltre a mobilitare le milizie a lui fedeli, chiese aiuto ai Paesi considerati più vicini, in primis a Italia e Turchia. Da Roma giunse solo un assordante silenzio. Il governo Conte I, forse per una valutazione frettolosa dei rischi e delle opportunità, forse per timore di impegnarsi in azioni invise all’elettorato di riferimento delle forze politiche di maggioranza, non fece nulla. Esattamente il contrario di Ankara. Il presidente turco, Recep Tayyip Erdoğan, dispose l’invio di uomini e mezzi. Dalla Turchia giunsero a Tripoli armamenti di ogni tipo, agenti dei servizi di intelligence, truppe regolari e mercenari siriani.

Ankara non agì certo perché mossa da spirito altruistico. Respinto l’attacco di Haftar, i turchi passarono alla raccolta dei frutti del loro investimento e, alla fine del 2019, firmarono con la Libia un accordo di delimitazione dei rispettivi confini marittimi. Il trattato non si limitava però a definire le frontiere liquide tra i due Paesi. Cosa già di per sé sufficiente a suscitare le preoccupazioni greche, italiane ed egiziane. Erdoğan agiva in maniera coerente con la volontà di rafforzare la proiezione geopolitica del suo Paese nello scacchiere mediterraneo. Più di un secolo dopo essere stati scacciati dagli italiani, i turchi sono tornati in Libia, in particolare in Tripolitania, e hanno tutta l’intenzione di restare.

Tale scelta è coerente con la dottrina della Patria Blu, Mavi Vatan in turco, ideata dall’ammiraglio Cem Gürdeniz e fatta propria dalla Stato profondo. L’obiettivo è controllare il mare per imporre l’influenza turca e accaparrarsi risorse. Ankara ambisce a chiudere in maniera definitiva con le umiliazioni del passato, risalenti alla sconfitta di Costantinopoli nel primo conflitto mondiale. A questo disegno risponde l’attivismo nel Mediterraneo, che proprio in Libia trova chiara espressione. Sono i turchi dunque a fare il bello e il cattivo tempo dalle parti di Tripoli, con buona pace dei francesi e degli inglesi. Il che forse è anche peggio per noi italiani, dato l’abbraccio stretto e tutt’altro che disinteressato in cui hanno imprigionato il governo di Abdul Hamid Dabaiba.

Due episodi negli ultimi mesi dimostrano che Ankara non ha alcuna intenzione di lasciare spazi di manovra ad altri nella nostra antica colonia. A giugno è stata ridimensionata di molto la Task Force “Ippocrate”, la missione sanitaria italiana in Libia operante a Misurata, in seguito a un accordo tra le autorità dei due Paesi. L’annuncio era arrivato già a marzo per bocca del capo di stato maggiore della Difesa, ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone. La decisione, giustificata da necessità logistiche e riorganizzative, è in realtà anche il risultato di pressioni dei turchi per mettere fine a un’iniziativa considerata di intralcio ai loro progetti.

Il secondo segnale sulla consistenza dei piani di Ankara risale agli inizi di ottobre. Nel quadro del già citato accordo del 2019, i governi dei due Paesi hanno firmato un memorandum d’intesa per rafforzare la cooperazione anche in ambito energetico. In particolare, il documento prevede il coinvolgimento di imprese turche nelle attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi sia a terra che offshore, comprese le acque rivendicate dalla Grecia come proprie. Così facendo, Erdoğan stringe ancora di più la sua morsa sul Paese nordafricano, poche settimane dopo gli scontri di Tripoli. In quell’occasione, i droni Bayraktar Tb2 dispiegati da Ankara a protezione del governo di Dabaiba sono stati determinanti. Insieme alle forze addestrate dai turchi, essi hanno permesso di respingere il tentativo di colpo di mano di Fathi Bashaga, posto a capo del governo parallelo di Sirte dal parlamento di Tobruq nel mese di febbraio.

Ankara è diventata così il principale deus ex machina del quadro politico libico. L’appoggio alle istituzioni tripoline non ha ostacolato il dialogo con le altre forze in campo. Si è creata così una condizione nella quale nessuno dei contendenti può prescindere dalla volontà dei turchi. Messa la situazione in questi termini, non sembra che per noi italiani siano rimasti molti spazi di manovra. Ma io credo che con una chiara visione di quello che vogliamo e un impegno costante di risorse umane ed economiche è possibile recuperare una parte del terreno perduto.

La prima cosa da fare è chiedersi se la Libia debba mantenere una posizione privilegiata nell’agenda di politica estera italiana. La risposta, senza dubbio alcuno, è sì! Ho evidenziato le ragioni principali di tale affermazione già nel primo paragrafo di questo articolo. Basti ora solo ricordare le questioni energetiche, diventate di massima rilevanza a seguito dell’aggressione russa dell’Ucraina. Grazie a iniziative lungimiranti e tempestive, l’Italia è riuscita a sostituire quasi tutto il gas di Mosca. E i tanto temuti razionamenti sembrano per il momento scongiurati. Questo momento di difficoltà negli approvvigionamenti energetici può rivelarsi un’occasione inaspettata per Roma. Il gas e il petrolio di cui ancora abbiamo largamente bisogno, nei prossimi anni, arriverà in buona parte da sud, cioè dal Nord Africa e dal Mediterraneo orientale, con la significativa aggiunta dell’Azerbaigian.

Il nostro Paese si trova nella posizione ideale per diventare l’hub energetico dell’Unione europea, acquisendo un peso geopolitico molto più consistente di quello attuale. In tale prospettiva, la Libia è un fornitore imprescindibile di idrocarburi. Lo sa bene l’ENI, che solo pochi giorni fa, insieme all’inglese BP, ha concluso un nuovo accordo con la Libyan National Oil Corporation. L’intesa consente di avviare le trivellazioni e la produzione di un giacimento di gas naturale offshore, potenzialmente più grande del già mastodontico Zohr, scoperto nel 2015 in Egitto sempre dal cane a sei zampe.

La Libia ha riserve accertate di gas pari a 80 trilioni di piedi cubi e intende riportare la produzione petrolifera a 2 milioni di barili al giorno entro 3-5 anni. Se la situazione politica dovesse rimanere entro un livello accettabile di instabilità, l’obiettivo potrebbe essere raggiunto. E a Tripoli non possono prescindere da ENI e dalle altre imprese italiane, checché dicano i turchi. L’azienda di San Donato Milanese, per quanto lungimirante ed esperta, non è però l’Italia intesa come sistema Paese. ENI deve essere sostenuta dalla nostre istituzioni che, al di là della successione delle maggioranze politiche, sono chiamate a fare gioco di squadra nella difesa dell’interesse nazionale. E l’incremento della presenza economica italiana in Libia è obiettivo non impossibile da raggiungere. Anche perché non c’è solo l’oil&gas, ma tanti altri settori dove fare investimenti, dalle costruzioni all’agroalimentare, dai macchinari al turismo.

Tra l’altro, l’Italia degli affari è tutt’altro che ininfluente nell’antica colonia. Complice la relativa stabilità del 2022, il nostro Paese ha già riconquistato il posto di primo partner commerciale della Libia, con un interscambio arrivato a 6,37 miliardi di euro nei primi sette mesi dell’anno e una quota di mercato pari al 22,26% (i turchi sono rispettivamente a 1,94 miliardi e al 6,77%). La bilancia commerciale pende nettamente a favore di Tripoli per via delle esportazioni di prodotti energetici, ma abbiamo comunque esportato beni e servizi, tra gennaio e luglio, per 1,11 miliardi, con un incremento rispetto allo stesso periodo del 2021 addirittura del 71,24%. La Turchia è il primo fornitore, con 1,54 miliardi, ma la crescita delle sue esportazioni è stata molto inferiore, pari al 22,3%.

Il quadro economico non è dunque sfavorevole all’Italia e potrebbe contribuire a favorire la ripresa dell’iniziativa da parte della politica. Questa è stata la grande assente nei rapporti bilaterali. Il governo Draghi sembrava pronto a interrompere la serie troppo lunga di anni del disinteresse verso il Paese nordafricano. La visita del presidente del Consiglio a Tripoli dell’aprile 2021 appariva come l’occasione del rilancio della collaborazione con l’Italia. Ma la guerra in Europa orientale ha spostato l’attenzione verso quello scacchiere e la Libia è tornata in fondo alla lista delle preoccupazioni di Roma. Ora è tempo di invertire la rotta.

Assodato che l’antica colonia resta di grande importanza per la sicurezza dell’Italia, bisogna capire come intervenire. L’obiettivo non può e non deve essere quello di scacciare i turchi. Non abbiamo la forza né la necessità di farlo. Però possiamo ricominciare a far sentire più chiara la nostra voce. Anche perché sarebbe errato pensare che nessuno in Libia sia interessato ad approfondire i rapporti politici con l’Italia. Tutte le forze in campo, e quelle tripolitane in particolare, percepiscono la presa sempre più asfissiante di Ankara sul loro Paese. Lo stesso governo Dabaiba, pur non potendo prescindere dalla tutela turca, non sarebbe scontento di bilanciare in parte un’influenza troppo capillare. E allora cosa aspettiamo? Non dobbiamo fare altro che capitalizzare in termini politici un peso economico che già abbiamo e inserire in una trama coerente e ordinata iniziative politico-diplomatiche, che pure hanno luogo.

Un evento delle scorse settimane può rappresentare un’ottima base di partenza. A metà ottobre, ha avuto grande eco la prima edizione del premio dell’amicizia italo-libica “Arco di Marco Aurelio”. L’iniziativa è stata organizzata dall’ambasciata d’Italia, dal dipartimento libico delle antichità e dal municipio di Tripoli, sotto il patrocinio del consiglio presidenziale. Si tratta di un successo della diplomazia culturale, che evidenzia anche la presenza di un terreno fertile per il rilancio dell’iniziativa politica. I presupposti per un salto di qualità ci sono tutti. Ora è tempo di fare squadra: istituzioni, imprese e società civile per ripristinare il prestigio dell’Italia in Libia, a difesa dei nostri interessi e per il progresso e la crescita del Paese nordafricano.

Foto: icoca.ch

Fonti e approfondimenti

Ghibli è la newsletter quindicinale dell’Associazione Italiani Rimpatriati dalla Libia curata da Mario Savina e ricca di informazioni su quanto accade nel Paese nordafricano;

A. Assad, Libya agrees with Italy’s ENI, UK’s BP to produce gas in the Mediterranean, The Libya Observer, 31 ottobre 2022;

Nova.news, Droni al governo di Tripoli, la Turchia puntella l’alleanza militare con la Libia, Agenzia Nova, 26 ottobre 2022;

D. Santoro, Libia, l’accordo con Tripoli mette la Turchia al centro del Medioceano, Limes online, 13 ottobre 2022;

Nova.news, Libia: il nuovo governo dell’Italia può ripartire dall’economia per riprendere i contatti politici, Agenzia Nova, 18 ottobre 2022;

Nova.news, Successo a Tripoli per la prima edizione del premio dell’amicizia italo-libica, Agenzia Nova, 16 ottobre 2022;

FRANCE 24, Turkey and Libya sign maritime hydrocarbons deal, 3 ottobre 2022;

D. Ruvinetti, Perché l’Italia deve dialogare con la Libia, Formiche.net, 10 ottobre 2022;

D. Zurlo, Non possiamo fare a meno della Libia, Domino, n. 6/2022;

Analisi Difesa, Ridimensionata la missione sanitaria italiana in Libia, 2 giugno 2022;

L. Vita, Mavi Vatan: il sogno segreto del sultano, Inside Over, 22 agosto 2020