L’Iran è un Paese giovane. Poco più di un terzo –il 35 % circa– degli 85 milioni di abitanti ha meno di 24 anni. Si tratta di ragazze e ragazzi nati intorno all’anno 2000, che non hanno dunque alcun collegamento diretto con la rivoluzione khomeinista del 1977-79. Spesso neanche i loro genitori hanno assistito alla creazione della Repubblica islamica. L’alto clero sciita, che conserva il potere e difende le proprie rendite di posizione, è costituito invece da persone in età avanzata, tra gli ottanta e i novant’anni Non sorprende quindi che la società iraniana condivida sempre meno il sistema ideologico e valoriale utilizzato per giustificare il rovesciamento dello scià. E poi per legittimare il governo degli ayatollah. La stessa Guida suprema, Ali Khamenei, compirà 84 anni nel prossimo mese di aprile. Un abisso generazionale separa la leadership dal resto del Paese, alimentando l’insofferenza di chi ripudia un passato ormai asfissiante.
Le proteste, cominciate a settembre dell’anno scorso, stanno interessando più di 160 centri urbani di tutte le dimensioni. La scintilla che ha fatto deflagrare la rabbia a lungo accumulata è stata l’uccisione della giovane Mahsa Amini. La ragazza, poco più che ventenne, è morta in seguito alle percosse ricevute mentre era sotto custodia della forza per la prevenzione del vizio e la promozione della virtù, conosciuta anche come polizia morale. Le reazione popolare ha tratto energia dal malcontento per un quadro economico ormai disastroso e per la gestione fallimentare della pandemia da parte delle autorità. A questo si aggiunge la crescente ostilità dei giovani per la lista infinita di divieti e limitazioni di ogni tipo alla libertà delle persone. Nonostante i tentativi del regime di controllare l’afflusso di informazioni dall’esterno, è inevitabile che modelli di vita diversi da quelli imposti suscitino desideri di cambiamento e modernità.
Le persone sono stanche di affrontare le ristrettezze della vita di tutti i giorni. La crisi economica è la conseguenza principale della strategia della massima pressione su Teheran voluta dall’amministrazione Trump. Nel 2018, ritenendo che le condizioni fossero troppo vantaggiose per gli ayatollah, gli americani si ritirarono dal trattato voluto da Obama tre anni prima. In effetti, l’accordo sul programma nucleare iraniano aveva consentito una rimozione parziale delle sanzioni imposte dai Paesi occidentali nel corso degli anni dopo la rivoluzione. Le maggiori risorse disponibili e la convinzione di aver trovato un modus vivendi con Washington rafforzarono le velleità regionali di Teheran.
Già da alcuni anni, l’Iran era impegnato a sfruttare il caos impadronitosi del mondo arabo in seguito alle rivolte del 2011 per rafforzare la sua posizione nello scacchiere mediorientale. Attraverso il sostegno militare ed economico a formazioni di vario tipo, Teheran è entrata nel ginepraio siriano e nella guerra civile yemenita. Senza tralasciare l’appoggio mai venuto meno a Hezbollah in Libano e l’approfondimento dei legami con Hamas e altri gruppi palestinesi minori. Il progetto era di costruire un’area di influenza –un crescente sciita– estesa dai confini con il Pakistan alle coste del Mediterraneo. Passando per la Mesopotamia e la penisola araba. Il principale artefice di tale disegno è stato il generale dei Pasdaran –le guardie della rivoluzione– Qassem Soleimani. La sua influenza sulla politica iraniana era all’apice quando fu ucciso in un’operazione condotta dagli americani vicino all’aeroporto di Baghdad all’inizio del 2020.
Le ambizioni internazionali del regime avevano suscitato la preoccupazione dell’Arabia Saudita, principale avversario di Teheran nella partita per l’egemonia regionale. Ecco perché Riad e il suo alleato emiratino non rinunciarono a esercitare pressioni su Washington affinché abbandonasse la politica delle concessioni agli ayatollah. La notizia del ritorno delle sanzioni fu dunque salutata con favore dalle monarchie sunnite. Ma anche da Israele, che identifica nell’Iran una delle minacce principali alla sua sicurezza. Gli americani avevano scelto di irrigidire la loro posizione verso Teheran non certo per compiacere gli alleati del Golfo. Peraltro sempre meno disposti a sostenere Washington in Medio Oriente e nel contenimento della Cina. Gli Stati Uniti puntano a mantenere una condizione di sostanziale equilibrio tra le potenze regionali, considerato lo scenario migliore per la tutela dei loro interessi nell’area. Non sorprende dunque che l’amministrazione Biden mantenga la pressione su Teheran, anche se con meno enfasi mediatica.
L’Iran è più che mai isolato sul piano economico. Le esportazioni di petrolio verso la Cina, che respinge le scelte americane come manifestazione dell’imperialismo a stelle e strisce, attenuano di poco la durezza delle sanzioni. Il divieto di fare affari con Teheran non colpisce soltanto le aziende statunitensi. Ma anche le imprese straniere, in primis quelle europee, alle quali è impedito l’accesso al mercato americano qualora si ostinassero a commerciare con gli iraniani. Anche il sistema bancario subisce pesanti limitazioni e gli investimenti stranieri sono all’osso, nonostante le promesse di Pechino di finanziare grandi progetti infrastrutturali. L’impossibilità di importare tecnologie occidentali lascia ampi settori dell’economia iraniana, compreso il comparto petrolifero, in uno stato di arretrata inefficienza. Tutto questo si traduce in difficoltà, che gli iraniani affrontano nella vita di ogni giorno, dall’inflazione galoppante alla disoccupazione, dalla carenza di servizi alla scarsità di molti beni, compresi quelli di largo consumo.
L’insoddisfazione popolare è un formidabile strumento di pressione per indurre il regime ad accettare condizioni meno vantaggiose rispetto all’accordo del 2015. Il malcontento si è approfondito con la pandemia di Covid-19, che ha colpito duramente l’Iran. A peggiorare le cose, ha contribuito la narrativa dell’emergenza sanitaria adottata dalle autorità. Il virus è stato presentato come una minaccia alla sopravvivenza dello Stato, identificato con il regime. I cittadini sono stati quindi chiamati a porre in essere tutti gli sforzi necessari per combattere il pericolo. Esattamente l’opposto dei Paesi occidentali che, seppur con modalità e tempi diversi, hanno fatto ricorso a misure per proteggere la popolazione. Non il contrario. A questo si aggiunge la scarsa efficacia dei vaccini –circa una decina– sviluppati da Teheran con orgoglioso rifiuto di qualsiasi aiuto dall’estero.
Tali fattori hanno un peso determinante nelle proteste delle ultime settimane, che si inseriscono in una lunga tradizione locale di esternazione del malcontento. La società iraniana contemporanea nasconde nelle sue profondità un’indomabile voglia di cambiamento. Come un fiume carsico, il bisogno di voltare pagina con il passato periodicamente viene alla luce in maniera più o meno esuberante. È almeno dalla rivoluzione costituzionale del 1906 che il Paese mostra questa attitudine. E la deposizione dello scià, con la conseguente nascita della Repubblica islamica, si può leggere certo come sterzata alquanto inaspettata. Ma anche come segno evidente della volontà delle persone di sperimentare qualcosa di nuovo, in maniera coerente con una consolidata tradizione del cambiamento. Cosa che gli ayatollah farebbero bene a non sottovalutare, se vogliono conservare più a lungo il loro potere.
Il dato più interessante della fase attuale di tensione è la contestazione aperta della legittimità del regime. Gli slogan contro l’assetto politico-istituzionale e le figure che ne controllano le sorti sono apparsi per la prima volta nel 2017. In seguito alla rielezione di Hassan Rouhani alla presidenza della Repubblica, la piazza ha messo in dubbio in maniera esplicita che la svolta khomeinista sia ancora in grado di indicare il cammino del Paese verso il futuro. Fino a quel momento, ogni episodio di contestazione dello status quo, fatta eccezione per singole posizioni eterodosse o nostalgiche, partiva dalla richiesta di riforme. Tale approccio ha segnato anche il Movimento verde del 2009. Seppur molto più ampio e organizzata rispetto a oggi, la contestazione della regolarità della rielezione di Mahmud Ahmadinejad non invocava la fine della Repubblica islamica.
Le cose sono molto diverse adesso. E non è un caso che la repressione del regime sia arrivata con una fermezza inedita anche per gli standard iraniani. Le condanne a morte per “inimicizia contro Dio”, eseguite ai danni di ragazzi poco più che ventenni, lanciano un monito chiaro ai contestatori. L’élite al potere non ha perso il suo istinto di autoconservazione e il clero sciita è determinato a difendere le sue posizioni. Non a caso, le proteste appaiono indebolite negli ultimi giorni. Ma una pesante spada di Damocle pende sui turbanti dei religiosi.
L’Iran, dal decennio scorso, è entrato in una fase demografica nuova. Per la prima volta nella storia recente, la popolazione attiva supera la somma dei bambini e degli anziani. Inoltre, con un’età media di 32 anni (in Italia è a quasi 42 anni), il Paese è tra i più vecchi del Medio Oriente. Questi dati non descrivono una società senescente. Anzi, essi sono l’indicatore di un Paese nel pieno delle sue forze, che ha tutte le energie per raccogliere e affrontare le sfide della contemporaneità. Pensare che un gruppo di vegliardi possa continuare ancora a lungo a determinare le sorti di milioni di giovani è illogico. La frattura generazionale tra chi comanda e chi lavora e produce è quindi già evidente e destinata ad approfondirsi. Con tutto il suo carico di incomprensioni e incomunicabilità tra chi è espressione del passato e chi guarda al futuro.
Bisogna tuttavia evitare le semplificazioni tanto care a molti osservatori occidentali, prigionieri di una sciocca narrativa binaria che oppone i giovani studenti e lavoratori agli anziani ayatollah, il chador nero alla minigonna, i manifestanti e la polizia. La realtà è molto più complessa. Non siamo necessariamente al tramonto del regime attuale. La Repubblica islamica non sta per crollare. Una nuova classe dirigente, fatta di persone più giovani rispetto a quella attuale, potrebbe approfittare della fase di incertezza per emergere. Tra coetanei, in genere, ci si capisce meglio e, senza cadere nella banalizzazione, un clero meno sclerotizzato ai vertici del sistema politico potrebbe facilitare la rimozione delle limitazioni più anacronistiche alla libertà delle persone e delle rigidità responsabili delle disfunzioni del sistema economico.
Non può essere escluso nemmeno uno scenario simile a quello egiziano, dove i militari hanno guidato il colpo di Stato del 2013. Nell’ultimo decennio, le forze di sicurezza hanno acquistato peso nel sistema politico iraniano. In particolare, i pasdaran, riuniti nel corpo delle guardie della rivoluzione islamica, sono in grado di orientare molte delle scelte dei religiosi. La loro influenza potrebbe divenire tale da indurli a sostituirsi al clero sciita per dare vita a un sistema autoritario di tipo militare e laico. Lo scettro del potere passerebbe a un gruppo dirigente di cinquantenni, associando il cambio di regime a un rinnovamento generazionale. Fatto sta che la solidità del nuovo corso iraniano inaugurato nel 1979 è precaria e, pur non essendo prefigurabile a un crollo del sistema nel breve termine, il Paese si avvia in una nuova stagione di profondi cambiamenti. E sarà la demografia a dettarne il ritmo.
Foto: tg24.sky.it
Fonti e approfondimenti
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M. Motamedi, Iran’s currency hits record low amid tensions with the West, Al Jazeera, 22 gennaio 2023;
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Associazione Neodemos, S. Morgan, L’unico problema che l’Iran non ha è quello demografico, Limes online, 30 novembre 2022;
J. Gamerro, Iran: la non-rivoluzione nella battaglia per il dopo-Khamenei, L’Indro, 4 ottobre 2022;
Il n. 1-2023 di Domino. Rivista sul mondo che cambia, diretta da Dario Fabbri ed edita da Enrico Mentana è dedicato al Paese degli ayatollah con il titolo Enigma Iran
Sono intervenuto sulla situazione iraniana il giorno 11 gennaio 2023 sulla pagina Facebook di L’Italia che merita
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