Quasi un secolo fa, dall’ingegno di Alfonso Bialetti nasceva una caffettiera destinata a trasformarsi in un’icona del Made in Italy. L’inventore della moka battezzava il prodotto ricorrendo a un nome esotico. Il suo era un omaggio a una sconosciuta città yemenita affacciata sulle coste ventose e assolate del Mar Rosso, non lontano dallo Stretto di Bab el-Mandeb. Eppure, al-Mukha è stata il centro più importante per il commercio del caffè fino agli inizi del XIX secolo, con un grande porto dal quale partivano navi cariche dei grani della pregiata qualità arabica. Oggi di quella vitalità e delle ricchezze garantite dal caffè, orgoglio e vanto dei suoi abitanti, resta ben poco. Al-Mukha e il resto dello Yemen sono scivolati ai margini della Storia, riemergendo dall’oblio solo di tanto in tanto. È quanto accade da alcune settimane, dopo che i semisconosciuti Houthi hanno riportato questo Paese al centro della cronaca internazionale e delle rivalità che, nel Medio Oriente in fiamme, oppongono potenze globali e regionali.
Il mondo contemporaneo si è sempre disinteressato dello Yemen, considerato come il parente straccione dei suoi prosperi vicini del Golfo. A differenza delle petromonarchie della Penisola Araba, questo Stato non beneficia dei fiumi di denaro garantiti dallo sfruttamento dei ricchi giacimenti di idrocarburi. Anche se un po’ di petrolio c’è, soprattutto nella regione sud-orientale dell’Hadramawt, lo Yemen è rimasto escluso dal benessere, detenendo il poco invidiabile primato di Paese più povero dell’area MENA. Su equilibri politici ed economici già fragili, dal 2014 è piombata come un macigno una guerra civile che, secondo le Nazioni Unite, ha provocato quasi 400.000 vittime. Senza contare i milioni di persone che mancano di tutto e hanno bisogno di urgente assistenza umanitaria. Il conflitto deriva dalla deflagrazione di fratture e rivalità interne alla società tribale yemenita, sulle quali soffiano potenze impegnate a promuovere i loro interessi.
Fu il presidente Ali Abdallah Saleh a riuscire nell’impresa quasi di garantire, dopo l’unificazione tra nord e sud avvenuta nel 1990, un sistema di potere durato più di due decenni. Non mancarono stagioni turbolente, come il conflitto del 1994 tra l’oligarchia della capitale Sana’a e le fazioni meridionali, insofferenti nei confronti di quella che osteggiavano come una brutale annessione. Ma la struttura nel complesso resse anche grazie a una intricata trama di relazioni personali e clientelari tra Saleh e i principali clan tribali del Paese. Non tutti i gruppi di potere trovarono però adeguata rappresentanza nell’architettura istituzionale dello Yemen unificato. Motivazioni confessionali, politiche e di convenienza diedero vita a periferie sociali ed economiche sempre più insofferenti. Proprio da queste sarebbe arrivata la distruzione dello status quo faticosamente raggiunto. Tra le formazioni ostili all’autorità del governo centrale, gli Houthi sono il soggetto che più degli altri ha contribuito a lanciare la sfida poi precipitata nel caos della guerra civile.
Eppure, questa organizzazione politico-confessionale e militare non era nuova nel panorama tribale yemenita. Già all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, la relativa tolleranza delle autorità di Sana’a in materia di libertà religiosa aveva indotto alcuni membri della famiglia Houthi, in particolare Muhammad e suo fratello Husayn, a fondare la Gioventù credente. Si trattava di un movimento nato tra i membri dell’élite religiosa zaidita, variante secondaria dell’Islam sciita, ma prevalente nel nord dello Yemen. L’obiettivo era di valorizzare le tradizioni locali e contrastare le attività dei predicatori salafiti, attivi nel governatorato di Sa’da e legati alla vicina Arabia Saudita, desiderosa di estendere la sua influenza sulla regione montagnosa al confine tra i due Paesi. Ecco perché le prime iniziative della Gioventù credente si concentrarono in ambito educativo e culturale, con la creazione di circoli scolastici e campi estivi per i più giovani.
Le rivendicazioni politiche arrivarono dopo e sfruttarono la componente religiosa per alimentare forti sentimenti identitari. Quella parte del Paese si sentiva infatti orfana dei tempi in cui il suo potere, attraverso l’autorità del governo zaidita dell’imam Ahmad bin Yahya, arrivava fino a Sana’a e alle coste del Mar Rosso. Le cose erano cambiate in seguito al colpo di Stato repubblicano del 1962, che aveva dato vita nei medesimi territori a un regime di ispirazione nasseriana. All’inizio del nuovo secolo, sembrava che i tempi fossero maturi per strappare concessioni a Saleh in termini di autonomia e maggior peso nelle logiche consociative di spartizione delle risorse. Ma il regime ravvisò in tali richieste un pericolo alla sua sopravvivenza e la repressione non tardò ad arrivare. Tra il 2004 e il 2010, violenti scontri opposero le forze governative e le milizie degli Houthi. Fu in quegli anni che queste assunsero la denominazione di Ansarullah, cioè partigiani o ausiliari di Dio. Tale appellativo richiama i primi abitanti di Medina convertiti in seguito all’arrivo in città del Profeta, che avrebbero dato vita al nerbo militare del primo Islam.
Le cosiddette primavere arabe, che scossero con intensità variabili tutta l’area compresa tra le coste atlantiche del Marocco e il Golfo, indussero gli esclusi dal sistema di potere yemenita a intensificare le loro rivendicazioni e a contestare apertamente il potere dell’uomo forte di Sana’a. Non solo gli Houthi ma anche i secessionisti del sud e varie formazioni afferenti alla galassia dell’islamismo radicale organizzarono proteste di piazza e scioperi contro il presidente. Furono però gli affiliati ad Ansarullah a sfruttare il caos per riprendere la strada della lotta armata fino ad acquisire il controllo di parti del Paese sempre più ampie partendo dalla loro roccaforte di Sa’da. L’anno di svolta è il 2014, quando gli Houthi riescono a occupare i palazzi del potere della capitale yemenita. Il successo fu possibile anche grazie all’alleanza con una parte delle forze fedeli a Saleh, contrarie alle sue dimissioni pretese dai manifestanti e alla transizione verso un regime più inclusivo promesso dal nuovo presidente Abd Rabbuh Mansur Hadi, già militare vice di Saleh tra il 1994 e il 2012.
Da allora il Paese è privo di un potere centrale e il governo riconosciuto dalla comunità internazionale non è in grado di controllare nulla neanche all’interno del perimetro urbano della città di Aden, dove ha trovato riparo. Sana’a è infatti saldamente nelle mani di Ansarullah, che riesce a esercitare un certo controllo del territorio in modo simile a un’entità statuale insediatasi approssimativamente entro i confini del vecchio Yemen del Nord. La conquista di circa un quinto dello Yemen e la creazione di un seppur basilare apparato amministrativo sarebbero stati impossibili senza il sostegno politico, militare, logistico e finanziario dell’Iran. Ma la Repubblica islamica non ha appoggiato gli Houthi fin dai primordi della loro contestazione al potere centrale. Il sostegno è giunto quando Teheran ha ravvisato l’opportunità di acquisire un utile alleato nella contesa con l’Arabia Saudita per l’egemonia nell’area del Golfo.
Gli Houthi sono perfetti per assolvere a tale compito poiché già avevano opposto resistenza alla penetrazione di Riad nel nord dello Yemen e sono di confessione sciita, anche se in Iran il ramo zaidita è assente a vantaggio del filone principale dei duodecimani. L’avvicinamento tra Ansarullah e la Repubblica islamica suscitò forti preoccupazioni tra i sauditi che, a partire da marzo del 2015, avviarono una campagna militare contro il movimento yemenita insieme ad altri Paesi arabi. Migliaia di incursioni aeree e bombardamenti fiaccarono però la resistenza degli Houthi, forti dei continui rifornimenti in arrivo dall’Iran e dell’insediamento in un territorio in larga parte aspro e montagnoso, ideale per nascondigli e depositi di materiali impossibili da distruggere senza ricorrere a truppe di terra. La campagna militare voluta da Riad si trasformò presto in un pantano capace di drenare ingenti risorse economiche senza peraltro evitare rappresaglie sullo stesso suolo saudita principalmente attraverso droni esplosivi.
Solo nel 2022 fu trovato un accordo per il cessate il fuoco a seguito di trattative dirette tra le parti in conflitto. Il tutto mentre altri negoziati, con la mediazione della Cina, erano in corso tra sauditi e iraniani per arrivare a un’intesa tattica di allentamento della tensione nel Golfo, poi resa pubblica nella primavera dell’anno scorso. Non è inverosimile che Teheran abbia messo sul piatto la sua capacità di influenza sugli Houthi come parte del mercanteggiamento di concessioni reciproche con Riad. Anche se sarebbe un errore considerare Ansarullah e gli altri proxy della Repubblica islamica come semplici burattini privi di volontà. È vero che senza il sostegno iraniano gli Houthi difficilmente sarebbero stati qualcosa di più di ribelli in infradito e fucile Kalashnikov. Questo però non significa che non abbiano un’agenda propria, come è reso evidente in queste settimane dai loro attacchi alle navi mercantili in transito nello Stretto di Bab el-Mandeb.
Tali incursioni hanno preso di mira inizialmente solo i mercantili diretti verso lo Stato ebraico o in qualche modo a esso collegabili. La condanna dei Paesi occidentali, accusati di appoggiare Israele in maniera acritica, ha poi indotto gli Houthi a estendere le operazioni. Dietro il sostegno alla causa palestinese, si nascondono però esigenze più prosaiche, legate alla volontà di rafforzarsi nei rapporti con le altre le formazioni politico-militari dello Yemen e di mantenere effettivo il controllo del territorio. Le tensioni tra Ansarullah e il Consiglio di Transizione del Sud, che dal 2017 riunisce vari gruppi politici e milizie attivi nei governatorati meridionali, sono costanti e non sono rare le occasioni di scontro.
Inoltre, una conseguenza non prevista del cessate il fuoco con l’Arabia Saudita è la crescente difficoltà per gli Houthi di giustificare le pessime condizioni di vita in cui versa la grande maggioranza della popolazione, priva anche dei più elementari servizi di base. La retorica del nemico esterno ha funzionato fino a quando le bombe cadevano copiose. Ma ora è impossibile continuare a chiedere indicibili privazioni agli abitanti di quei territori senza un inevitabile aumento dell’insofferenza. L’appoggio ai palestinesi e la posizione geografica a ridosso di una delle arterie principali del commercio mondiale hanno permesso quindi di acquisire visibilità e di perseguire importanti obiettivi interni come la gestione del malcontento. La risposta militare degli americani e degli inglesi a tutela della sicurezza della navigazione nel Mar Rosso consentono infatti di riprendere la retorica dell’accerchiamento da parte di un nemico esterno e ricordano a Teheran che Ansarullah non è un utensile usa e getta.
Gli attacchi degli Houthi non dispiacciono certo alla Repubblica islamica, che vede aprirsi un nuovo fronte della resistenza contro Israele e dà in maniera indiretta un colpo agli americani, che sulla libertà del commercio marittimo fondano una parte rilevante del loro dominio sugli oceani. Ciononostante, la prospettiva che gli Stati Uniti rallentino o addirittura arrestino il loro di disimpegno dal Medio Oriente è una prospettiva che preoccupa gli iraniani. A dimostrazione che nessun proxy può essere degradato a mero esecutore della volontà dei suoi referenti. Nel frattempo, lo Yemen è riemerso dalle profondità della Storia, dopo che anche la sua sanguinosa guerra civile sembrava ormai scivolata nella lunga lista dei conflitti dimenticati. La sua posizione geografica a ridosso di uno dei colli di bottiglia – choke point secondo la locuzione inglese – e l’intreccio tra esigenze locali e condizionamenti internazionali lo hanno riportato al centro della cronaca internazionale, con gli Houthi a dare le carte in una partita molto più grande di loro.
Foto: formiche.net
Fonti e approfondimenti
E. Tasinato, Gli Huti giocano per sé, Limes n°1-2024;
E. Rossi, Gli Houthi sfruttano il caos. Pronti alla pace con Riad, Formiche, 6 febbraio 2024;
A. Stark, Don’t bomb the Houthis. Careful diplomacy can stop the attacks in the Red Sea, Foreign Affairs, 11 gennaio 2024;
A. Vatanka, The Houthis, Iran and tensions in the Red Sea, Middle East Institute, 11 gennaio 2024;
G. Dentice, Tensioni nel Mar Rosso: come cambia lo scenario in Medio Oriente, Ce.S.I., 15 gennaio 2024;
E. Hagedorn, Red Sea escalation threatens US effort to end Yemen’s war, Al Monitor, 16 gennaio 2024;
L. Vita, Hezbollah, Houthi e milizie: la costellazione di forze in mano all’Iran, InsideOver, 6 gennaio 2024;
ISPI, Da Gaza al Mar Rosso: l’altra faccia della crisi, 4 gennaio 2024;
A. Nagi, The conflict in Yemen is more than a proxy war, Foreign Affairs, 21 luglio 2023;
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