La cronaca dei fatti che sembrano voler catapultare il Medio Oriente contemporaneo verso una nuova e sconosciuta stagione della sua storia la conosciamo. Ci hanno pensato le emittenti televisive internazionali, i social media, le agenzie di stampa e perfino il provincialissimo mondo dell’informazione italiano. Il racconto minuto per minuto della tanto annunciata – forse fin troppo – rappresaglia dell’Iran contro Israele per l’attacco al suo consolato a Damasco ha suscitato l’apprensione anche dei più distratti. Depositata ora la polvere degli ordigni volanti, quasi tutti distrutti da Iron Dome e dall’aviazione dello Stato ebraico e di Paesi amici (forse anche dell’Arabia Saudita, ma questo Riad non lo ammetterà mai) cerchiamo di attingere alle nostre modeste conoscenze e capacità per provare ad analizzare il presente e definire ipotesi di scenari futuri.
Partiamo dalla considerazione che Teheran non poteva evitare la ritorsione. Dopo giorni di grida ai quattro venti e con la bava alla bocca contro Israele, avrebbe miseramente perso la faccia in caso di inazione o di una modesta risposta tardiva. La mollezza dinanzi alla costante pressione dell’arcinemico sionista sarebbe stata però poca cosa rispetto al messaggio consegnato ai proxy iraniani sparsi per il Medio Oriente. La compattezza del cosiddetto “asse della resistenza” avrebbe subito un colpo potenzialmente letale. Insinuato il dubbio che la sintonia con Teheran non paga i dividendi utili a perseguire interessi e agende locali, le formazioni di questa galassia avrebbero perso il principale incentivo a sostenere le ambizioni del regime degli ayatollah. Anche le grandi potenze e le petromonarchie del Golfo si sarebbero convinte che, tutto sommato, l’Iran è una minaccia importante ma gestibile. Oppure un attore sul quale conviene puntare senza compromettersi troppo.
D’altra parte, la rappresaglia è stata studiata e annunciata dalle stesse autorità di Teheran in maniera da assicurare soprattutto una dirompente portata mediatica e un chiaro valore simbolico, anche se non senza rischi. L’effetto scenico ha trovato un utile alleato nei video amatoriali dei droni in lento spostamento verso occidente nei cieli dell’Iraq e della Giordania. Mentre la gente in attesa ad Haifa, Tel Aviv e Gerusalemme era indecisa se scappare verso i rifugi o attardarsi per assistere a uno strano spettacolo di stelle cadenti. Non ci sono ancora conferme, ma sembra che non tutti i droni e i missili balistici e da crociera trasportassero cariche esplosive. La loro traiettoria verso obiettivi militari nelle contestate alture del Golan e nelle zone desertiche e poco popolate del Negev, evitando con cura i siti industriali e i grandi agglomerati urbani, è altrettanto significativa.
Un comunicato della rappresentanza iraniana alle Nazioni Unite ha poi rassicurato il mondo, presentando l’azione come legittima difesa ai sensi dell’art. 51 della Carta dell’Onu e considerando chiusa la questione. A meno che Tel Aviv non commetta passi falsi. Questo non toglie che quanto avvenuto sul finire del secondo shabbat di aprile sia da sminuire o da semplificare. Per la prima volta, un attacco dichiarato verso Israele è partito direttamente dal territorio della Repubblica islamica e non dalle milizie a essa collegate, come sempre avvenuto in precedenza. Si tratta della linea rossa, che finora Teheran non aveva mai osato attraversare. E la dirompenza di tale fattore è solo parzialmente mitigata dal fatto che anche la Repubblica islamica ha conosciuto una violazione dei suoi confini. Gli edifici diplomatici nella capitale siriana sono infatti considerati territorio iraniano, pur con i caveat che questa fictio iuris propria del diritto internazionale comporta.
Il messaggio principale è però che l’Iran non vuole arrivare, almeno per il momento, a un conflitto armato diretto e simmetrico con lo Stato ebraico. Tale intenzione è stata comunicata nei giorni scorsi anche agli Stati Uniti attraverso gli intermediari qatarini e omaniti. Nonostante la retorica incendiaria e la propaganda, il regime degli ayatollah non è in grado di affrontare una guerra aperta contro Israele. Una cosa è una ritorsione, ben altro è uno scontro prolungato. Gli iraniani hanno di fronte un nemico molto più avanzato sul piano tecnologico e appoggiato, nel momento del bisogno estremo, dall’alleato americano. Ad esempio, Israele può colpire, anche con attacchi cyber, l’intero territorio della Repubblica islamica, i suoi principali porti, siti di estrazione petrolifera, raffinerie e altre infrastrutture strategiche. Già nelle prime ore di un ipotetico conflitto, il rischio è la paralisi delle capacità offensive iraniane.
Anche l’atteggiamento dopo il massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre è significativo di come la prospettiva di una guerra regionale spaventi Teheran. L’operazione della formazione politico-terroristica palestinese non sarebbe stata possibile senza il sostegno militare, logistico ed economico della Repubblica islamica. Ciononostante, la paternità dell’iniziativa non è dell’Iran. Né è chiaro fino a che punto Hamas abbia condiviso i dettagli e le tempistiche con la potenza sciita. Il successivo intervento israeliano nella Striscia di Gaza si è rivelato un’occasione per accrescere la pressione sul nemico sionista attraverso i proxy libanesi, yemeniti e iracheni. E per cavalcare l’indignazione dell’opinione pubblica mondiale per le sofferenze inflitte ai civili palestinesi dall’esercito israeliano. Ma una guerra è qualcosa di diverso. Soprattutto perché il regime degli ayatollah si giocherebbe da subito quello a cui esso tiene di più, ben oltre le ambizioni egemoniche sul Medio Oriente. E cioè la sua stessa sopravvivenza.
Il quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, ripreso anche da Al Jazeera, ha calcolato che la sola rappresaglia del 13 aprile è costata all’Iran più di 1 miliardo di dollari. Si tratta di una cifra importante per un Paese che, nonostante le esportazioni petrolifere verso la Cina, ha un’economia soffocata dalle sanzioni americane ed europee. Una guerra finirebbe dunque per dissanguare Teheran e difficilmente gli eventuali aiuti di Mosca e Pechino eviterebbero tale scenario. Alle questioni finanziare si affianca il serpeggiante malcontento della popolazione, che periodicamente si manifesta in aperta insofferenza per le ristrettezze economiche e per la compressione delle libertà civili e politiche. Il quadro è reso ancora più complesso dalla presenza di gruppi ostili al potere del governo centrale soprattutto nell’Azerbaigian iraniano e nella provincia sud-orientale del Sistan e Baluchistan. Queste mine disseminate nel corpo del Paese potrebbero scoppiare in caso di conflitto colpendo mortalmente il regime.
Anche Israele è attraversato da fratture interne. Tali lacerazioni hanno proiettato all’esterno un’immagine di vulnerabilità, che ha incoraggiato Hamas a forzare il blocco pressoché totale di Gaza imposto dallo Stato ebraico. Il tessuto sociale ha però dimostrato una certa resilienza unita alla capacità di mettere da parte, almeno temporaneamente, le divisioni più eclatanti, ricompattandosi dinanzi a minacce percepite come esistenziali. Questo non ha compromesso la libera espressione del dissenso che, al contrario, trova nella critica alla figura di Netanyahu e all’operato del governo la linfa propria dei regimi democratici. La stessa operazione non rivendicata a Damasco è ora fonte di dubbi per parte dell’opinione pubblica, che la ritiene eccessiva e provocatoria. La reazione iraniana ha però finito per rafforzare la sensazione di accerchiamento dalla quale paradossalmente Israele, fin dalla sua nascita nel 1948, trae energie per affrontare le minacce.
Sul piano diplomatico, Israele ha una preziosa occasione per uscire dall’isolamento. Il contesto è favorevole per recuperare il sostegno internazionale perso negli ultimi mesi a causa delle distruzioni e dell’alto numero di vittime civili a Gaza. Il governo Netanyahu deve poi stabilire come e quando rispondere alla Repubblica islamica. È improbabile che si avventuri in nuove azioni capaci di suscitare una rappresaglia come quella del 13 aprile. Anche Teheran ha le sue linee rosse e a Israele non conviene oltrepassarle di nuovo adesso. Anche perché ci sono ancora molte risorse da impiegare contro Hamas e magari in Libano per piegare la tracotanza di Hezbollah. Questo non toglie che il conflitto tra Tel Aviv e Teheran continui. La guerra è come un fiume carsico. Dopo essere affiorata per un attimo verso la superficie del confronto diretto, essa sembra voler ritornare nell’alveo sotterraneo delle operazioni asimmetriche e del conflitto ibrido.
È lecito aspettarsi che gli iraniani continuino a servirsi dei loro proxy per costringere Israele a non abbassare la guardia. Da parte sua, lo Stato ebraico potrebbe riprendere gli attacchi cyber contro infrastrutture critiche della Repubblica islamica e soprattutto ai danni degli impianti nucleari per impedire che Teheran arrivi all’atomica. Non è esclusa la continuazione degli omicidi di ufficiali dei Pasdaran per compromettere i progetti di creazione di un “crescente sciita” esteso dal confine con il Pakistan alle coste del Mediterraneo. Nel frattempo, entrambi i nemici cantano vittoria secondo narrative utili ai rispettivi fronti interni, sottolineando le capacità di reazione delle forze armate israeliane e il coraggio di aver sfidato a viso aperto il potente nemico sionista. Ristabilita una deterrenza che l’Iran aveva giudicato compromessa con l’attacco al suo consolato in Siria, i contendenti potrebbero anche decidere che oltre certi limiti di scontro non è conveniente per nessuno avventurarsi.
Volendo allargare lo sguardo al resto del Medio Oriente, chi ha vissuto con particolare angoscia questi ultimi giorni sono le petromonarchie del Golfo. Soprattutto l’Arabia Saudita ha ricevuto un messaggio indiretto ma chiaro dall’Iran. E cioè che Teheran resta una minaccia anche per il territorio di Riad, che non gode delle capacità di difesa delle forze armate israeliane. Se vissuta non come apice di una fase già molto tesa ma, al contrario, come prova generale di una possibile guerra regionale, per Casa Saud le cose non si mettono bene. I motivi di rivalità con la Repubblica islamica restano immutati. Essi avevano portato a un confronto su più piani in passato e l’accordo della scorsa primavera mediato dalla Cina ha solo permesso di guadagnare tempo. È la definizione di un modus vivendi transitorio in attesa di capire come posizionarsi al meglio.
Il sequestro del mercantile MSC Aries poche ore prima dell’attacco a Israele chiarisce anche alle altre monarchie del Golfo che la minaccia non investe solo i sauditi. In caso di conflitto, la navigazione attraverso lo Stretto di Hormuz potrebbe diventare impossibile. Questo sarebbe un colpo mortale per la sicurezza e le economie di Kuwait, Bahrain ed Emirati. Ma anche per il Qatar, che ha fatto delle relazioni con la Repubblica islamica un punto di forza della sua azione internazionale. Tutti gli attori restano in preoccupata attesa di capire i prossimi sviluppi, senza escludere che l’ipotesi più temuta diventi realtà. Nessuno trarrebbe vantaggi dalla guerra e nessuno sembra volerla. Ma non sappiamo se siamo ancora in una catena di azioni e reazioni suscettibile di trascinare questa parte del mondo verso un conflitto dalle inevitabili ripercussioni globali. Le ipotesi sono tutte valide. Nel frattempo, si naviga a vista anche in Medio Oriente.
Foto: adnkronos.com
Fonti e approfondimenti
Questo articolo è frutto della riflessione personale sulla base delle notizie di cronaca alle quali si rimanda per la descrizione della crisi in corso.
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