Il verbo che apre il titolo di questo articolo non è al presente indicativo. Magari lo fosse! Si tratta piuttosto di un congiuntivo con valore esortativo, che bene testimonia l’ampio potenziale inespresso dell’Italia in quanto potenza marittima. Alla ripresa delle attività dopo l’estate infuocata che lentamente ci lasciamo alle spalle, sento la necessità di tornare a riflettere sull’argomento con il quale ho aperto la serie di articoli pubblicati su questo sito. E cioè sull’urgenza di uno sforzo maggiore per un salto di qualità definitivo da Paese balneare a soggetto marittimo a tutto tondo. Dobbiamo diventare più consapevoli delle opportunità derivanti dagli 8.000 Km di costa al centro del Mediterraneo datici in regalo dalla geografia, a lungo vissuti come una zavorra con la quale convivere. Abbiamo le capacità e le conoscenze e, se ben guardiamo, anche le risorse umane, intellettuali ed economiche per invertire la rotta e prendere il largo.

La base dalla quale partire per uno sforzo che è innanzitutto di pedagogia nazionale prima che politico ed economico c’è già. Nell’atavica indifferenza di buona parte dell’opinione pubblica e della stessa classe dirigente, si è sviluppata un’economia del mare che contribuisce a circa il 10% della ricchezza nazionale. E d’altronde non potrebbe essere diversamente per un Paese come il nostro che, malgrado tutto, possiede ancora un settore manifatturiero tra i più importanti al mondo con una spiccata vocazione all’esportazione. La necessità di raggiungere mercati lontani e di importare l’energia e le altre materie prime necessarie al funzionamento dell’industria italiana ha fatto dei porti e di tutti i soggetti, pubblici e privati, che intorno a essi gravitano uno dei vettori dello sviluppo del Paese.

Sono due i pilastri su cui puntare: il tessuto di aziende, che rappresentano la linfa vitale della blue economy e la Marina Militare, che dà corpo al necessario perimetro di sicurezza. È poi fondamentale un’attività decisionale e di coordinamento garantita dallo Stato, superando la logica tutta italiana dei campanili gelosi delle proprie prerogative e restii a fare squadra. Ma niente di tutto questo è realizzabile senza una più diffusa consapevolezza dell’importanza vitale del mare per l’Italia. Da esso dipendono la crescita economica e la capacità di fronteggiare le sfide poste da un ordine internazionale sempre più caotico e gravido di pericoli. Fin dal raggiungimento dell’unità politica nella seconda metà del XIX secolo, il nostro Paese ha guardato verso l’Europa continentale. Il Mediterraneo ha sempre suscitato più paure che speranze. Memore degli antichi invasori giunti dal mare, l’Italia ha rifiutato di protendersi verso l’orizzonte per costruire le sue fortune.

Questo tratto antropologico delle genti italiche è arrivato fino ai giorni nostri, contribuendo a plasmare il modo in cui stiamo al mondo e ci rapportiamo con la geografia. Pur avendo dato nei secoli contributi significativi alla scoperta di parti sconosciute del globo, all’arte della navigazione e al commercio marittimo, a forgiare la coscienza collettiva del Paese hanno inciso di più le pagine sanguinose che ogni comunità costiera della penisola conserva nei suoi archivi, fatte di attacchi di pirati turchi e barbareschi, catastrofici naufragi tra i flutti ruggenti, saccheggi, rapimenti e fatiche insopportabili. Drammi che hanno concorso a generare un innato timore verso l’orizzonte trasmesso di generazione in generazione. E che oggi trova espressione nella paura dei migranti invasori e di qualsivoglia forestiero venuto per chissà quali malevole e segrete ragioni.

Il rapporto dell’Italia con il mare, sebbene condizionato da innumerevoli fattori, poggia su questo miscuglio di antiche ferite, innati timori e inconfessabili pregiudizi. Oggi il lusso di queste sciocchezze e di anacronistici sentimentalismi non possiamo più permettercelo. Più che mai, il futuro del nostro Paese dipende dal mare che così generosamente lo bagna. È necessario abbandonare pregiudizi e paure per affrontare con fiducia e determinazione i flutti. Non si tratta di abbandonarsi a romantiche avventure intrise di esotismo o a inedite forme di cosmopolitismo da bar. Tutto è molto concreto, quasi banale se ci soffermiamo a rifletterci con un po’ di buon senso. È impossibile per l’Italia, tenendo conto della sua collocazione geografica, del suo passato e delle caratteristiche del mondo di oggi, non essere un Paese marittimo.

Bisogna innanzitutto capire che non ci sono modelli alternativi o più efficaci. E poi è necessario coordinare gli sforzi per non andare in ordine sparso con il rischio di mancare l’obiettivo. Quanto alle risorse – che ci sono e si possono sempre trovare – ci si penserà una volta compiuto il necessario passo iniziale. Quello che ancora manca all’Italia è infatti uno slancio deciso verso l’orizzonte. Anche se – c’è da dire – qualcosa si sta muovendo. Il dibattito e lo studio dell’economia marittima non sono più argomenti di nicchia per addetti ai lavori. Si moltiplicano i convegni e le iniziative organizzati da università, istituti di credito, centri di ricerca, associazioni di categoria. Anche l’industria dell’informazione dedica più spazio a questi temi. Il decisore politico non resta indifferente e, con il Piano del Mare per il triennio 2023-2025, l’Italia arriva finalmente a una prima individuazione chiara degli interessi marittimi nazionali.

Partiamo dunque da quello che abbiamo. E sicuramente i numeri riportano l’immagine di un Paese al quale non mancano gli imprenditori disposti a lavorare e a rischiare a contatto con il mare. Nell’indifferenza di tanti, si è sviluppato un tessuto di 220mila aziende attive nei segmenti più disparati dell’economia blu, dalla cantieristica all’energia, dalla pesca al trasporto di merci e persone, dalla logistica al turismo – solo per citarne alcuni. L’economia marittima contribuisce – come detto – a un decimo del PIL e dà lavoro a oltre 1 milione di persone.

I porti sono il pilastro principale del sistema. Queste infrastrutture strategiche l’anno scorso hanno movimentato quasi 500 milioni di tonnellate di merci, pari al 4 % della quota globale attestatasi a 12,3 miliardi di tonnellate. L’Italia è leader nel Mediterraneo e in Europa per lo short sea shipping con 305 milioni di tonnellate nel 2022. Per i nostri porti sono transitati 70 milioni di passeggeri. Il valore economico della flotta traghetti italiana, corrispondente a 4 miliardi di dollari, è al vertice della classifica mondiale, superando di gran lunga cinesi e giapponesi, fermi rispettivamente a 2,64 e 2,56 miliardi di dollari. E il Mezzogiorno gioca un ruolo tutt’altro che secondario, con il 47% delle merci movimentate nei suoi scali, il 66% dei passeggeri transitati, il 32% del valore aggiunto dell’economia del mare e il 37,5% degli addetti del settore.

Il nostro Paese dispone dunque di una base forte. Bisogna fare adesso un salto di qualità acquisendo consapevolezza delle opportunità e lavorando in squadra per coglierle. Concentrarsi solo sull’economia blu è però riduttivo. Una potenza marittima è tale se riesce a esprimere a tutto tondo la sua determinazione ad affrontare le onde. Altrimenti il rischio è di avvilupparsi in logiche esclusivamente mercantilistiche per scivolare nella gerarchia delle potenze a un livello ancora più basso di quello al quale decenni di disinteresse per le questioni strategiche ci hanno relegato. La posizione geografica dell’Italia impone proattività. Non possiamo più aspettarci che siano gli altri ad accollarsi l’onere della nostra difesa. È stato così per mezzo secolo grazie alla protezione degli Stati Uniti, scambiata da tanti italiani per ingerenza (in parte lo è stato). Ma adesso è tempo di assumerci le nostre responsabilità e provvedere in prima persona alla nostra sicurezza.

Siamo nel pieno di una corsa al riarmo su scala globale. L’aggressione russa dell’Ucraina e i venti di guerra che spazzano il Medio Oriente hanno soltanto accelerato un processo già in atto. La crescente difficoltà e la declinante volontà degli americani a difendere il loro primato, insieme al ritorno dell’uso della forza tra le opzioni possibili per far valere le proprie ragioni, ci hanno condotti verso una stagione quanto mai incerta delle relazioni tra Stati. L’Italia è chiamata a uno sforzo inedito nella storia repubblicana per rafforzare le sue capacità di difesa e deterrenza. Da questo dipende la sicurezza nazionale. Il rischio è infatti che, senza nemmeno accorgercene, diveniamo preda di potenze ostili interessate ai gioielli del nostro sistema produttivo e infrastrutturale.

Se quindi vogliamo un mare sicuro dobbiamo fare in modo che sia tale senza aspettare che altri se ne occupino. O, peggio ancora, che tanto non succederà mai niente perché, in fin dei conti, non si può non volere bene agli italiani. Sono due trappole da evitare a tutti i costi. Siamo pronti se, ad esempio, un attacco informatico mette fuori uso la rete elettrica nazionale? Siamo in grado di reagire se un tratto di mare fondamentale per l’import-export italiano diventa pericoloso o viene chiuso per motivi politici? Scenari un tempo considerati al limite della fantascienza oggi non sono più così inverosimili. Ecco perché, ritornando al nostro focus marittimo, abbiamo bisogno di una Marina Militare nelle condizioni di affrontare le sfide inedite del tempo presente e del prossimo futuro.

Nell’introduzione alla relazione annuale sulle attività della forza armata, l’ammiraglio Enrico Credendino, ha sottolineato come il 2023 sia stato “un anno particolarmente sfidante” alla luce delle accresciute tensioni nel Mediterraneo allargato. Il Capo di Stato Maggiore ha evidenziato come i livelli di impegno richiesti debbano considerare una disponibilità di personale e di mezzi ben inferiore al minimo necessario. Il punto nodale è proprio questo. La Marina Militare Italiana semplicemente è troppo piccola. Poco più di 29.000 unità di personale militare e una flotta di un centinaio di navi, delle quali solo la metà compone la flotta operativa (la parte restante comprende rimorchiatori e navi ausiliarie per il comando e il supporto logistico, il rifornimento, il trasporto di acqua e gasolio, le attività idrografiche e oceanografiche, il servizio fari e le navi scuola), non sono sufficienti. Tali dimensioni andavano bene in tempi di bonaccia. Ora però il barometro segna tempesta.

Siamo arrivati al punto in cui la grande professionalità degli uomini e delle donne della Marina Militare e il ritmo di ammodernamento della flotta non sono più sufficienti a rispondere alle esigenze di sicurezza del Paese né a proteggere in maniera completa i suoi interessi. La qualità delle risorse umane e materiali non riesce a compensare le necessità quantitative dettate dai tempi. Oltre alle più note vicende sull’Ucraina e sul Medio Oriente che riempiono le pagine della cronaca internazionale, basti citare i corposi investimenti nelle rispettive marine militari fatti da altri Paesi mediterranei come l’Algeria, la Turchia e, in parte, l’Egitto che stanno modificando a nostro svantaggio gli equilibri nei mari intorno alla nostra penisola.

Il pericolo è di non riuscire ad affrontare tutte le minacce che potrebbero palesarsi all’orizzonte o poco al di là di esso. Anche perché il concetto di Mediterraneo allargato, sviluppato a partire proprio dalla riflessione strategica portata avanti dalla Marina Militare, si sta estendendo sempre di più. Le superfici marine rilevanti per la sicurezza e la tutela degli interessi dell’Italia vanno ormai ben oltre la parte di mondo compresa tra il Golfo di Guinea, l’Artico e il Mare Arabico con il Mediterraneo al centro. L’Indo-Pacifico, dove si concentra la competizione tra le superpotenze americana e cinese, sta acquisendo crescente importanza anche per noi. Non a caso in quelle acque incrociano al momento il Carrier Strike Group guidato da nave Cavour, l’Amerigo Vespucci come parte del suo giro del mondo e il pattugliatore polivalente d’altura Montecuccoli. Un impegno non da poco, che rischia di lasciare scoperti altri mari.

Bisogna correre ai ripari. E farlo alla svelta. Non si tratta di accontentare i militari così da potersi dire soddisfatti al termine di un’esercitazione o di una rassegna navale. È in gioco il futuro dell’Italia, la sua prosperità, le sue istituzioni democratiche e repubblicane. C’è da dire che il decisore politico, chiamato a dare l’indirizzo e ad allocare le risorse per realizzarlo, mostra adesso sensibilità verso questi temi. Ma i soldi sono pochi così come il tempo a disposizione. I calcoli basati sulle scadenze elettorali e la paura di sfigurare dinanzi al populista di turno che comincia a parlare di scuole, pensioni e ospedali, dovrebbero cedere il passo a un’oggettiva valutazione delle esigenze di sicurezza nazionale, anche se non del tutto percepite dall’opinione pubblica. Istruzione, sanità e previdenza sono importantissime, ma il rischio è di comprendere l’altrettanto grande rilevanza della nostra difesa quando è troppo tardi.

Non abbiamo dunque scelta. Dobbiamo essere un Paese marittimo maturo e consapevole, senza ripensamenti né indecisioni. Altrimenti saranno gli altri a scegliere per noi e quasi sicuramente senza tenere conto delle nostre opinioni. La cosa buona è che non partiamo da una situazione irrecuperabile. La vera sfida si gioca sulla consapevolezza che non possiamo prescindere dal mare se vogliamo mantenere il nostro stile di vita. Questo non possiamo considerarlo ormai acquisito, ma dobbiamo garantircelo giorno per giorno. E dal successo sulle onde dipende il buon esito di questo sforzo. Tutti siamo chiamati a essere consapevoli della sfida e, se ciascuno farà la propria parte, essa non potrà che essere vinta.

Foto: mediterraneaonline.eu

Fonti e approfondimenti

AA.VV., Italian Maritime Economy. Le nuove sfide dei porti dell’area euro-mediterranea. La crisi del Mar Rosso e le trasformazioni importe dai modelli green, SRM 2024;

Marina Militare, Rapporto Marina Militare anno 2023Ministero della Difesa, 2024;