Fino a un paio di decenni fa, per i viaggiatori che facevano la spola tra l’Europa e l’Africa, era quasi impossibile evitare uno scalo a Londra o a Parigi. Le due antiche capitali imperiali hanno conservato a lungo, dopo il processo di decolonizzazione, una sorta di monopolio nell’accesso al resto del mondo dei territori un tempo sotto il loro dominio. Oggi le cose sono molto differenti. Nonostante la diversificazione delle rotte, una delle porte d’accesso privilegiate verso l’Africa è Istanbul. Non è raro dover fare una sosta nel modernissimo aeroporto della metropoli sul Bosforo prima di raggiungere l’Europa o, in direzione opposta, qualche Paese africano. La posizione geografica favorevole si coniuga con una fitta rete di tratte aeree servite da Turkish Airlines. La compagnia di bandiera, oltre ai suoi interessi commerciali, contribuisce a perseguire obiettivi funzionali al rafforzamento della proiezione verso l’Africa, che Ankara cura con dedizione da due decenni.

Le basi antropologiche e geopolitiche dell’interesse per l’Africa

La Turchia di oggi si presenta al mondo come una potenza sicura di sé. Sembrano passati secoli dagli anni in cui il Paese pativa le ristrettezze – mentali prima che politiche e diplomatiche – seguite alla sconfitta ottomana nella prima guerra mondiale. I turchi, per mezzo millennio alla testa di un impero esteso su tre continenti, hanno impiegato il resto del Novecento per riprendersi dal trauma. Forse l’eredità più significativa che la stagione del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) lascerà ai posteri è di aver rimosso il velo di apatia calato a lungo sulla nazione. Anche le forze politiche estranee alle logiche del potere erdoğaniano non contestano la postura di Ankara verso il resto del mondo. Essa origina dalla rinnovata volontà di essere riferimento imprescindibile nella definizione degli equilibri della regione nella quale la geografia ha collocato la Turchia. Senza timore di sfidare i primi della classe, se necessario.

La maniera in cui la nazione turca vuole stare al mondo – e che trova espressione nel modo di agire dei suoi decisori (non il contrario) – si concretizza in una certa volontà di potenza. È semplicemente il ritorno ai tratti antropologici ancestrali di un popolo che ha il sangue degli antichi guerrieri delle steppe dell’Asia centrale più che una novità emersa da chissà dove. Per noi europei occidentali, tutto questo può suonare démodé o addirittura incomprensibile, tanto siamo inebriati di nettare estratto dalla compulsiva ricerca di benessere post-storico. Eppure, gran parte del mondo non la pensa così. Ci sono popoli ancora pronti a fare dei sacrifici inconcepibili per l’italiano, il francese o il tedesco medio pur di vedere il proprio Paese rispettato e ammirato, se non addirittura temuto. I turchi sono tra le nazioni disposte a rinunciare ad alcune comodità della vita, se necessario a (ri)costruire il prestigio di Ankara.

La marcia della Turchia verso l’Africa, che è iniziata alla fine degli anni Novanta del secolo scorso, è in armonia con tale brama di dominio. Da un punto di vista più prosaico, l’interesse per questo continente risponde a considerazioni geopolitiche precise. Non c’è potenza che possa definirsi tale senza libero accesso agli oceani nonché alle risorse materiali e non delle coste e rispettivi retroterra. Per la Turchia, questo significa prima di tutto evitare di essere confitta tra Mar Nero e Mediterraneo fino a rimanerne strozzata. A Suez ci sono gli alleati (irrinunciabili, ma senza dirlo troppo in giro) americani, che provvedono a dissuadere il non sempre amichevole e antico vassallo egiziano da improvvidi colpi di testa limitanti l’accesso di Ankara al Mar Rosso e all’Indo-Pacifico via Bal el Mandeb. A presidiare Gibilterra ci sono poi gli inglesi, anch’essi alleati di convenienza. Ma non basta.

L’accesso agli oceani, anche quando non assicurato in prima persona, è ingrediente necessario ma non sufficiente. È fondamentale anche presidiare i mari di interesse strategico. Come Ankara sta già cercando di fare nel quadro della dottrina della “Patria blu”, sviluppando una flotta più ampia e stringendo accordi con Stati rivieraschi. Pesano molto anche altri fattori. Come la possibilità di ottenere risorse di altri a condizioni privilegiate, l’influenza esercitata sulle loro decisioni politiche e strategiche o anche il solo fatto di essere considerati un punto di riferimento sul quale potere o dover contare. La Turchia in Africa punta proprio a questo e lo fa con determinazione e costanza. L’approccio scelto è multisettoriale, in grado di abbracciare la dimensione politica così come gli aspetti economici, fino alla difesa e sicurezza. Non sono da trascurare le questioni culturali e religiose, affrontate nel solco della tradizione islamica condivisa con molti Paesi del continente.

I vettori tradizionali della presenza turca

Ankara privilegia la cooperazione politica come apripista a forme di collaborazione in altri ambiti. Sebbene sia partner strategico dell’Unione africana dal 2008, la Turchia preferisce la pragmaticità delle relazioni bilaterali, ritenute più dirette ed efficaci per assicurare risultati immediati ed evidenti. Per questo motivo, Ankara ha dato un forte impulso alla sua copertura diplomatica diretta nel continente. Le sue ambasciate sono passate da 12 nel 2009 a ben 43 nel 2023. In questo modo, la Turchia è riuscita ad assicurarsi una presenza capillare in tutto il continente, superando di gran lunga anche rilevanti Paesi europei. Per fare un paragone, l’Italia si ferma a 29 sedi. È un salto di qualità ragguardevole. Questo ha permesso ad Ankara di espandere e rendere costante una presenza storicamente consolidata solo nella fascia mediterranea e nel Corno d’Africa.

Per i turchi è poi fondamentale mantenere rapporti stabili e di fiducia con i leader locali, come suggerisce la frequenza delle visite ufficiali a tutti i livelli. Lo stesso Recep Tayyip Erdoğan ha guidato più di 50 missioni, visitando una trentina di Paesi africani già da primo ministro e poi da presidente della Repubblica dopo il 2014. Sono altrettanto numerose le delegazioni che si recano in Turchia, dando così vita a una complessa trama di scambi. Anche perché, in queste occasioni, i politici di entrambe le parti – ma questo vale soprattutto per i turchi – sono accompagnati da imprenditori e dirigenti delle principali società pubbliche presenti per la firma di importanti contratti. Le aziende turche operano principalmente nei settori delle costruzioni e dei materiali utilizzati nell’edilizia, come acciaio e cemento, ma anche nel tessile e nell’elettronica e sono molto attive nell’esportazione di beni per la casa e di prodotti agro-alimentari.

La Turchia dimostra quindi di saper fare squadra in Africa attraverso sinergie vincenti tra pubblico e privato. Le aziende trovano un utile strumento di coordinamento nel Consiglio per le relazioni economiche estere, cui fa capo una rete molto articolata di camere di commercio per facilitare i contatti con le controparti africane nonché gli investimenti diretti esteri. Anche in tale ambito Ankara ha compiuto notevoli passi in avanti. L’obiettivo del governo turco è di arrivare a 10 miliardi di dollari entro il 2025. Gli ultimi dati disponibili parlano di un obiettivo ancora lontano, con una cifra compresa tra 2 e 6 miliardi. Ma tratta comunque di una crescita notevole considerando che, nel 2003, la cifra non superava i 100 milioni. Sul piano commerciale poi la Turchia è diventata una potenza tutt’altro che trascurabile e sta espandendo gli scambi anche in regioni nuove rispetto alle direttrici tradizionali.

Nel 2023, l’interscambio tra Ankara e l’Africa ha superato i 50 miliardi di dollari. Siamo lontani dai numeri del commercio tra il continente e la Cina, pari a 282 miliardi l’anno scorso. Ciononostante, il dato rilevante è la crescita dei traffici con la Turchia. Partendo da poco più di 5 miliardi nel 2003, essi sono aumentati del 20 % rispetto al 2022, quando si erano fermati a 41 miliardi, mentre gli scambi con Pechino sono cresciuti solo dell’1,5 %. Anche un’analisi della bilancia commerciale offre dati significativi. Le esportazioni di Ankara verso l’Africa superano di gran lunga le importazioni, che si fermano a meno di un terzo del valore totale. È l’esatto contrario dell’Italia, che nel 2023 ha registrato un interscambio di 60 miliardi (in contrazione di quasi 10 miliardi rispetto al 2022), soffrendo di un cronico e profondo disavanzo, con le importazioni pari a due terzi delle esportazioni.

La Turchia come alternativa a occidentali, cinesi e russi

Sul piano politico ed economico-commerciale la presenza turca in Africa si è dunque notevolmente irrobustita negli ultimi anni. Ankara è ormai un attore del quale è impossibile ignorare il peso quando si discute degli equilibri continentali. Ma come mai i turchi sono riusciti a fare tanta strada in poco tempo? Innanzitutto, hanno degli obiettivi chiari legati alla già discussa determinazione di fare del loro Paese una potenza regionale, ma capace di proiettare influenza su quadranti anche lontani dal suo tradizionale perimetro di azione. La vera carta vincente nelle mani della Turchia è però meno evidente. Ankara è stata molto abile a presentarsi non solo ai governi ma anche alle opinioni pubbliche africane come spinta all’azione dalla volontà di avviare collaborazioni reciprocamente vantaggiose e dai risultati immediati. Il suo approccio, anche attraverso una buona dose di retorica, viene proposto come alternativo all’Occidente, ma anche ai concorrenti cinesi e russi.

Il presidente Erdoğan non perde occasione utile per rimarcare l’estraneità della Turchia alla corsa coloniale degli europei verso l’Africa nell’Ottocento. Tacendo prudentemente che l’Impero ottomano ha dominato su parti del Nord Africa e del Medio Oriente secondo logiche simili a quelle dei colonizzatori inglesi e francesi, Ankara riesce ad accreditarsi come potenza leale e dalle “mani pulite perché non macchiate del sangue degli africani”. In questo modo, la Turchia sfrutta il risentimento crescente delle società africane verso le antiche madrepatrie coloniali, accusate di aver conservato gli appetiti predatori del passato. Ankara vuole inoltre apparire, in contrapposizione agli occidentali, come disinteressata a imporre modelli e stili di vita estranei alle culture locali e impregnati di razzismo. In particolare, la Turchia propone iniziative di cooperazione senza porre condizioni particolari e soprattutto non vincolate al rispetto dei valori fondanti dell’Occidente, codificati nei diritti umani e nei principi dello Stato di diritto.

Anche rispetto ai cinesi e ai russi, Ankara agisce in maniera spregiudicata. I turchi sfruttano i timori suscitati nelle controparti africane da anni di politiche di cooperazione per lo sviluppo tutt’altro che disinteressate poste in essere sia da Pechino che da Mosca. Tali iniziative si sono spesso rivelate molto più aggressive o inefficaci di quelle dei Paesi occidentali. La Cina è stata vista fin dall’inizio della sua scalata ai vertici della classifica mondiale della potenza come una valida alternativa al monopolio de facto della cooperazione con europei e americani. Le cose sono poi andate diversamente. Pechino punta a investimenti in grandi infrastrutture, realizzate da imprese e manodopera in gran parte cinese, erogando prestiti agli Stati africani. Le difficoltà di tanti Paesi a restituire le somme ricevute li hanno fatti precipitare nella “trappola del debito”, che Pechino sfrutta per estorcere concessioni politiche ed economiche dallo Stato mutuatario.

Anche l’approccio russo presenta limiti evidenti. Mosca è interessata quasi esclusivamente alle questioni di sicurezza, mossa da una visione ristretta ai soli aspetti militari e alla vendita di armamenti. Tra l’altro, l’invasione dell’Ucraina continua a drenare risorse, già in precedenza piuttosto limitate, anche dalle iniziative portate avanti in terra africana. Non sempre poi i russi si mostrano all’altezza delle sfide securitarie che hanno dinanzi. Ne è un esempio l’area del Sahel. La scorsa estate, le rappresentanze diplomatiche russe in Niger e in Mali hanno sconsigliato qualsiasi viaggio in quei Paesi a causa del rapido deterioramento delle condizioni di sicurezza. Eppure, le pressioni di Mosca avevano contribuito a indurre i governi locali ad allontanarsi dai tradizionali partner occidentali in materia di sicurezza. Puntare tutto o quasi sulla Russia in materia di sicurezza e cooperazione militare si è rivelato un investimento azzardato e incapace di produrre i frutti sperati.

Una cooperazione del solco della sicurezza e dell’Islam

In tale ambito Ankara offre occasioni di partnership particolarmente apprezzate dai Paesi africani. L’industria della difesa turca conosce una effervescente fase di sviluppo che dura ormai da due decenni. Le aziende sono in grado di fornire armi efficaci e sofisticate sul piano tecnologico, ma più accessibili e a buon mercato rispetto ai concorrenti occidentali. Le industrie anatoliche sono competitive nella fornitura di pezzi di ricambio a prezzi di favore nonché nell’assistenza e nell’attività di training con tecnici specializzati. Inoltre, Ankara mette volentieri a disposizione le competenze nell’antiterrorismo acquisite in molti anni di contrasto alle organizzazioni eversive curde. I margini di crescita sono ancora ampi. La Turchia detiene una quota pari soltanto all’1 % nel mercato delle armi in Africa, ma non mancano certo le commesse. Emblematico è il caso degli ormai celebri droni Bayraktar TB2 forniti a molti Paesi per fronteggiare ribellioni interne, come nel caso dell’Etiopia e della Nigeria.

Altri Stati hanno preferito andare ben al di là dell’acquisto di armamenti, affidando a consiglieri militari e addestratori turchi la formazione delle loro forze armate e di polizia. Ad esempio, professionisti inviati da Ankara hanno curato l’addestramento di circa 10.000 soldati in Somalia, pari a due terzi dei militari in servizio. A Mogadiscio, la Turchia ha aperto nel 2017 la sua più grande base all’estero. Costata 50 milioni di dollari ed estesa su una superficie di 4 chilometri quadrati, la struttura conosciuta come Camp Turksom ospita anche uffici diplomatici e persino una piccola moschea in stile ottomano.

È il segno tangibile dell’influenza di Ankara che, tra l’altro, a febbraio di quest’anno ha firmato un importante accordo con il governo somalo per potenziare e addestrare la Marina militare locale, quasi inesistente. La Turchia si impegna a fornire anche attrezzature ed equipaggiamenti. Mogadiscio vuole infatti migliorare il controllo del territorio e contrastare la pirateria per proteggere i bacini marini soggetti alla sua giurisdizione. In cambio, Ankara otterrà il 30 % dei proventi derivanti dallo sfruttamento delle risorse della zona economica esclusiva somala. I turchi accedono così a un’area di ricchissime risorse ittiche e con grandi potenzialità in quanto allo sfruttamento di giacimenti di idrocarburi ancora inesplorati. Si rafforza così sempre di più l’influenza di Ankara sull’antica colonia italiana, dopo otto anni dal primo memorandum d’intesa che apriva la strada alla cooperazione in campo energetico e minerario.

Anche nel Sahel, le autorità locali mostrano interesse a riprendere la collaborazione in ambito securitario contro i gruppi jihadisti. Si profila quindi solo come una temporanea interruzione quella seguita ai colpi di Stato degli ultimi anni. Il contributo turco è infatti sempre più apprezzato. Anche perché Ankara è più propensa di altri a completare l’addestramento delle forze africane attraverso periodi di formazione in Anatolia. Richieste analoghe sono giunte più di recente da vari Paesi dell’Africa occidentale, dove la Turchia sta investendo molto anche nel rafforzamento dei legami culturali. Spesso lo fa attraverso la promozione di iniziative dall’evidente componente religiosa. Ne è un esempio il finanziamento di 10 milioni di dollari per la costruzione della moschea nazionale del Ghana ad Accra. Il luogo di culto riprende chiaramente le caratteristiche delle moschee di Istanbul e ospita la seconda sala di preghiera più grande di tutta l’area del Golfo di Guinea.

Si calcola che siano in media 60.000 gli studenti africani che trascorrono nelle università turche una parte del loro percorso accademico. La relativa facilità di ottenimento dei visti di ingresso risponde anche alla volontà di investire sulle élite politiche ed economiche dell’Africa di domani, che inevitabilmente guarderanno ad Ankara come un punto di riferimento. Ma la Turchia punta anche su scuole gestite in loco da fondazioni e organizzazione caritatevoli legate a vario titolo al governo. In tale settore, la strada era stata aperta già negli anni Novanta da Hizmet, il movimento politico-religioso di Fethullah Gülen, morto pochi giorni fa negli Stati Uniti, dove si era rifugiato a seguito della rottura con Erdoğan, del quale ne aveva favorito inizialmente l’ascesa al potere.

Un bilancio positivo con qualche elemento di debolezza

La Turchia è dunque attiva su innumerevoli fronti e dappertutto in Africa, con un approccio che mescola driver tradizionali della cooperazione internazionale con elementi innovativi. Non c’è praticamente settore nel quale il gigante anatolico non sia disponibile alla collaborazione con le controparti africane. Ankara si muove all’insegna della pragmaticità, senza porre condizioni derivanti da principi morali o vincoli economici, visti con crescente sospetto dai Paesi africani. E lo fa mettendo in campo l’intero sistema-paese, con sinergie tra pubblico e privato, che tanti suoi concorrenti non riescono a replicare. Il risultato è una rapida ascesa dell’influenza turca in un continente che sarà determinante nella definizione degli assetti politici, economici, culturali e demografici dei decenni a venire.

Non mancano elementi di debolezza che si concentrano intorno alla dimensione economica. Sono infatti cospicue le risorse da investire con ambizioni così ramificate ed estese sul piano geografico. Il rischio è di cadere nella trappola della sovraestensione degli impegni. Anche perché l’economia turca non gode di perfetta salute. Soprattutto a seguito della crisi valutaria degli ultimi anni, accompagnata da un rimarchevole deprezzamento della lira e da elevata inflazione. Non sembra poter incidere invece un eventuale cambiamento del sistema di potere costruito dall’Akp e dal suo leader. La volontà di potenza – di cui l’espansione in Africa è espressione – è un sentimento individuabile nel corpo stesso della nazione, al di là delle forze politiche al governo. Di conseguenza, è ragionevole aspettarsi un rafforzamento della presenza turca nel continente, anche se questo dovesse comportare dei sacrifici, che il gigante anatolico è disposto a sopportare pur di continuare la sua marcia verso l’Africa.

Foto: Cem Oksuz

Fonti e approfondimenti

D. Ruvinetti, Così la Turchia prova ad avanzare in Africa, Fondazione Med-Or, 21 settembre 2024;

B. Balci, La Turchia in Africa: il soft power prima di tutto, Fondazione Oasis, 11 settembre 2024;

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M. Villani, La Turchia al centro dell’Africa, Treccani, 27 giugno 2024;

C. Volpi, Turchia e Somalia: un accordo strategico per la sicurezza marittima, Africa24.it, 26 maggio 2024;

M. Canesi, L’Africa fa da trampolino di lancio per la potenza turca, Geopolitica.info, 12 marzo 2024;

G. Carbone, F. Donelli, L. Ragazzi, V. Talbot, La Turchia in Africa. Ambizioni e interessi di una potenza regionale, ISPI, 8 gennaio 2024;

G. Didonna, La proposta antimperialista di Erdoğan in Africa, AGI, 10 settembre 2023;

D. Santoro, In Africa la Turchia esporta sé stessa, in Tutto un altro mondo, Limes, n. 10/2022.