Nell’articolo Dieci anni di fragile democrazia tunisina del gennaio scorso, mettevo in luce le numerose incertezze che incombevano sul futuro del Paese nordafricano. La Rivoluzione dei gelsomini del 2011 ha portato alla Costituzione democratica del 2014. Ma le fragilità strutturali del sistema politico-istituzionale e un quadro economico desolante hanno disilluso la popolazione, aumentandone la rabbia, deflagrata nelle ultime settimane.
Nello Stato mediterraneo si intrecciano questioni interne e partite geopolitiche tra potenze regionali, destinate ad avere ripercussioni anche sull’Italia. Roma stavolta sembra aver fiutato il pericolo. Anche se l’opinione pubblica, aizzata dalla solita retorica dei politici e dalle loro polemiche da spiaggia sui social, si divide ancora tra gli oltranzisti delle frontiere sigillate e i terzomondisti da salotto. La posta in gioco è però molto più rilevante. Ed è primario interesse dell’Italia contribuire alla stabilità di un Paese tanto piccolo quanto importante per la nostra politica estera.
Il 25 luglio, il presidente della Repubblica, Kais Saied, ha fatto ricorso all’art. 80 della Carta. Questa autorizza il capo dello Stato, in caso di pericolo imminente per l’integrità nazionale, la sicurezza e l’indipendenza del Paese, ad adottare le misure necessarie a fronteggiare la situazione. Saied spera così di allontanare le accuse di corresponsabilità nella cattiva gestione pubblica e di vincere lo scontro istituzionale in atto con Governo e Parlamento.
Negli ultimi mesi, il sistema politico è stato paralizzato dalle divergenze tra le formazioni interne all’Assemblea dei rappresentanti del popolo e dai reiterati conflitti di attribuzione tra Saied e il premier, Hichem Mechichi. Ricorrendo all’art. 80, il presidente ha sospeso per 30 giorni l’attività parlamentare, privando i deputati dell’immunità, e ha licenziato il Primo ministro. Sono stati inoltre rimossi diversi presidenti di Governatorati nonché alti funzionari pubblici, considerati responsabili dei gravi ritardi nella campagna di vaccinazione contro il Covid-19. Proprio la diffusione dell’epidemia, che aveva fatto della Tunisia il Paese africano con l’incidenza più alta di casi in rapporto alla popolazione, ha rappresentato l’occasione attesa da Saied per intervenire.
La società civile tunisina appare in larga parte disposta ad assecondare il decisionismo presidenziale. La speranza è vedere risultati immediati nella lotta contro le forme di corruzione più evidenti tra i dipendenti pubblici e le forze di polizia. Inoltre, i cittadini si aspettano miglioramenti rapidi della qualità della vita. I detrattori di Saied gridano invece al golpe, pensato per accentrare il potere a Cartagine, sede della presidenza della Repubblica, imprimendo al Paese una nuova svolta autoritaria. Tale posizione è stata sostenuta principalmente da Ennahda, il partito islamista legato alla Fratellanza musulmana, che esprime il presidente del Parlamento, Rashid Ghannouchi. Anche se quest’ultimo ha recentemente adottato posizioni più concilianti, a testimonianza delle divisioni interne al partito di maggioranza relativa.
Il quadro è complicato dall’assenza della Corte costituzionale. Questa non si è mai insediata a causa dell’incapacità delle forze politiche di trovare un accordo per la designazione dei giudici di nomina parlamentare. La presenza di una Corte funzionante è fondamentale per evitare che la fragile transizione democratica tunisina subisca improvvisi deragliamenti. L’istituzione dirime le controversie relative all’attribuzione di competenze tra i poteri legislativo ed esecutivo nonché i conflitti tra Cartagine e la Casbah, sede del Governo.
La Corte avrebbe dovuto esprimersi anche sulla continuazione dello stato d’emergenza, su richiesta del presidente del Parlamento o di trenta suoi componenti. Proprio l’art. 80 della Costituzione prevede tale passaggio, un mese dopo l’entrata in vigore delle misure emergenziali, per bilanciare l’arbitrarietà di questa prerogativa presidenziale.
A questo punto, è solo questione di tempo per capire se la Tunisia si appresti a una svolta autoritaria o se sarà in grado di trovare le energie per uscire dall’immobilismo, dall’instabilità politica esacerbata e dai continui cortocircuiti istituzionali. E in tale sfida una Corte costituzionale funzionante potrebbe evitare al Paese ulteriori drammi.
Un’alternativa è rappresentata dalla società civile che, già nel 2013, aveva contribuito a creare le condizioni minime di fiducia tra le forze politiche per redigere la Carta e uscire dall’empasse del momento. In Tunisia sono presenti infatti numerosi corpi intermedi, come le associazioni sindacali e le organizzazioni di categoria, capaci di mobilitare l’opinione pubblica. Anche se, negli ultimi anni, tali realtà si sono sempre più focalizzate sulla difesa degli interessi corporativi, invece di promuovere la concordia nazionale. Su tale irrigidimento ha pesato il peggioramento economico.
La transizione democratica non è stata accompagnata dallo sviluppo. L’ultimo decennio ha visto un peggioramento generale delle condizioni della popolazione. Il divario tra le regioni dell’entroterra, storicamente indietro rispetto ai centri della costa, è aumentato. Così come si sono approfondite le diseguaglianze tra il sottoproletariato delle periferie degradate e la classe media, formata da piccoli imprenditori e dipendenti pubblici.
La pandemia ha aggravato la situazione, con il Pil che è calato dell’8,8 % nel 2020 e destinato a contrarsi anche quest’anno. Il turismo, che contribuiva al 20 % della ricchezza nazionale, è fermo da ormai due anni. Si è così interrotta la ripresa di un settore già duramente provato dall’ondata di attentati di matrice jihadista del 2015 e capace di assorbire una parte consistente della forza lavoro. Oggi il tasso di disoccupazione ufficiale arriva al 20 %, con la situazione di molte famiglie resa ancora più precaria dal calo delle rimesse dall’estero. Gli incendi degli ultimi giorni stanno colpendo il settore primario, soprattutto il patrimonio zootecnico nazionale. L’unico dato positivo è rappresentato dall’aumento delle esportazioni verso la Libia, grazie alla fragile tregua negli scontri e al precario tentativo di stabilizzare il Paese.
Questo non basta però a risolvere i problemi. Mechichi aveva ottenuto un prestito di 800 milioni di dollari dal Fondo Monetario Internazionale e stava negoziando aiuti per altri 4 miliardi. In cambio, la Tunisia avrebbe dovuto adottare riforme per tagliare il debito pubblico, arrivato al 100 % per Pil, attraverso la riduzione dei salari dei dipendenti pubblici e dei sussidi alle fasce più deboli della popolazione. La reazione da parte dei cittadini sarebbe stata furibonda e il rischio di disordini diffusi avrebbe convinto Saied ad agire d’anticipo con i provvedimenti del 25 luglio, rovesciando sul Governo e sul Parlamento la rabbia per il disastro economico e per le lentezze nella campagna vaccinale.
La crisi tunisina è dunque il risultato di problemi politico-istituzionali ed economici interni, che hanno portato i principali centri di potere al redde rationem. Ognuno degli attori coinvolti ha però dei referenti all’estero, ai quali ha fatto ricorso per ottenere sostegno. E le potenze regionali interpellate non hanno perso l’occasione per giocare la loro partita geopolitica nel Paese dei gelsomini. I protagonisti di questa crisi estiva sono la Francia e la Turchia.
A Parigi erano ben consapevoli che Ankara guardava con interesse alla Tunisia. Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha adottato una politica estera assertiva nel Mediterraneo. Essa è il frutto della dottrina della Mavi Vatan, la Patria Blu. Si tratta dell’idea che la prosperità, la sicurezza e la potenza della Turchia contemporanea non possano prescindere dal controllo dei mari. Il dominio sulle rotte richiede però dei punti d’appoggio, dai quali esercitare la sovranità geopolitica. I turchi si sono già insediati nella vicina Tripolitania. La loro presenza è frutto del sostegno alle forze di Tripoli nella resistenza al tentativo di Khalifa Haftar di conquistare tutta la Libia. La Tunisia rappresenta un bottino potenzialmente più importante della Libia. La posizione del Paese, che costituisce la sponda meridionale del Canale di Sicilia, è di grande importanza strategica.
Da alcuni anni Ankara sta cercando di insediarsi a Tunisi. Il mezzo principale è quello dei contatti stretti con Ennahda, nel quadro della Fratellanza musulmana, di cui Erdoğan rivendica la guida politica e morale. All’inizio del 2020, ha suscitato molte polemiche la visita ad Ankara di Ghannouchi, accusato dalle formazioni laiche di essere ormai un vassallo dei turchi. Questi hanno fatto ricorso anche alla diplomazia degli scambi culturali e delle iniziative caritatevoli attraverso organizzazioni pie islamiche. Lo scopo, raggiunto solo in parte, è di accreditarsi anche presso l’opinione pubblica per estendere la loro influenza.
Ai disegni egemonici della Turchia in Africa del Nord e nel Mediterraneo orientale si sta opponendo con decisione la Francia. Il presidente Emmanuel Macron si è scontrato più volte con Erdoğan, criticandone le iniziative come pericolose e destabilizzanti. La realtà è che Parigi non accetta di vedere i turchi sostituirsi agli italiani in Libia. Quel “posto al sole” lo volevano i francesi nel 2011, dopo aver rovesciato il regime di Gheddafi. Figurarsi se siano disposti a lasciare che i turchi si insedino nel loro antico protettorato senza fare nulla. E in effetti Saied ha ricevuto subito l’appoggio di Macron, che il presidente tunisino aveva incontrato all’Eliseo nel maggio scorso. Poche settimane dopo, era stata la volta del premier francese, Jean Castex, di restituire la visita a Cartagine.
Parigi si è impegnata anche ad adottare politiche per favorire gli scambi economici e gli investimenti in Tunisia. E ha velocizzato l’arrivo di migliaia di dosi di vaccino per consentire a Saied di mostrare all’opinione pubblica i benefici immediati delle sue decisioni. Cosa accaduta all’inizio di questa settimana, quando la notizia di mezzo milione di iniezioni ha ricevuto grande risalto nel Paese e sulla stampa francofona.
Parigi dunque non si è lasciata scappare l’occasione e ha sfruttato la crisi interna tunisina a proprio vantaggio, cercando di assestare un colpo alle velleità di Ankara. E Roma? Per l’Italia il Paese dei gelsomini ha un’importanza strategica. Sono soltanto 145 i chilometri di mare (78 miglia nautiche) a separare Mazara del Vallo da Capo Bon. E la destabilizzazione della Tunisia vedrebbe il nostro Paese investito in pieno dai flussi di disperati in fuga dalla disoccupazione e dalla miseria. Nel mese di luglio sono entrate illegalmente in Italia 4.300 persone provenienti dalla Tunisia. Erano state 850 a giugno.
Al di là della questione migratoria, lo Stato nordafricano è fondamentale per la nostra proiezione geopolitica. Avere una certa influenza a Tunisi significherebbe disporre di sbocchi per i prodotti della manifattura italiana e opportunità di investimento in un mercato ricco di manodopera qualificata a basso costo. E soprattutto significherebbe non trovarsi i turchi a due passi da casa nostra. Con Ankara abbiamo legami politici ed economici di antica tradizione, ma la nuova assertività turca confligge inevitabilmente con gli interessi italiani. Già in Libia stiamo facendo molta fatica per cercare di recuperare almeno una parte delle posizioni perdute in un decennio di sostanziale disinteresse verso l’antica colonia. E comunque dovremo coabitare con i nuovi sponsor anatolici.
Ecco perché lasciare che la Tunisia sprofondi nel caos e nell’orbita turca sarebbe un altro grave errore nella nostra azione internazionale. Dopo i primi giorni di tradizionale e nefasta indifferenza per quanto accade al di là del Canale di Sicilia, Roma sembra essersi svegliata dal suo sonno. L’Italia ha fatto ricorso alla “diplomazia dei vaccini”, donando 1,5 milioni di dosi e attrezzature mediche al Paese dei gelsomini. Speriamo solo che questo gesto non sia dettato solo da nobili motivazioni umanitarie, ma anche da quella componente di realismo, senza la quale la politica estera non può essere definita tale. E la crisi di luglio in Tunisia può essere una buona palestra per un’Italia poco allenata ad agire sul piano internazionale per difendere i suoi interessi nazionali.
Foto: Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo
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