L’Afghanistan si colloca giusto al di là dei radar di Storie d’Oltremare. Eppure, quanto accade in queste ore nel Paese è destinato ad avere ripercussioni a livello globale. Tutti gli attori principali dello scacchiere internazionale saranno chiamati a misurarsi con le conseguenze del ritiro americano e della rapida avanzata talebana. Mentre buona parte della stampa italiana continua nella sua deriva emozionale e sensazionalistica, questo articolo prova a raccontare chi ci guadagna e chi ci perde nonché il possibile volto del nuovo regime talebano.

Sono passati quasi due decenni da quel 7 ottobre 2001, quando le prime bombe dell’operazione Enduring Freedom cominciarono a piovere su Kabul. Le macerie delle Torri Gemelle erano ancora in fiamme e gli Stati Uniti di George W. Bush cercavano vendetta per gli attentati a New York e Washington. Invece di un’operazione di polizia internazionale per catturare i vertici di Al Qaeda, protetti dall’Afghanistan dei talebani, gli americani preferirono un’azione su larga scala. E abbatterono lo Stato teocratico, costruito cinque anni prima dagli studenti coranici. L’obiettivo di annientare l’organizzazione di Osama bin Laden non fu raggiunto. Neanche lo sceicco del terrore fu preso, se non dieci anni dopo e in territorio pakistano.

Nel frattempo, la presenza degli Stati Uniti e degli alleati della NATO in Afghanistan si è trasformata in una missione di state building. Cioè nella costruzione di istituzioni capaci di controllare il territorio e di detenere il monopolio della forza. Così non è stato, nonostante le centinaia di miliardi di dollari spesi per addestrare ed equipaggiare l’esercito, la polizia e la macchina amministrativa. Ne è riprova il fatto che i talebani hanno impiegato pochi giorni, dopo la partenza degli ultimi soldati americani, a conquistare il Paese. Il 15 agosto sono entrati a Kabul, nonostante le previsioni dell’intelligence statunitense, che indicava in un mese il tempo necessario a raggiungere la capitale. Tale rapida avanzata è il risultato proprio della liquefazione dello Stato afghano, che non aveva radici profonde e si dimostrava incapace di rispondere ai bisogni essenziali della popolazione.

Da questo punto di vista, l’intervento americano e degli alleati è stato un fallimento molto costoso, sia in termini economici che di vite umane. Sono stati 2.400 i militari statunitensi morti in Afghanistan. 53 i caduti italiani. Molte migliaia i civili uccisi in attentati e azioni militari o di guerriglia in questi vent’anni. Difficilmente un ulteriore prolungamento della presenza della NATO avrebbe portato al consolidamento di istituzioni tagliate sul modello occidentale. Esse sono inadatte a un Paese così complesso sul piano etnico e geografico, estraneo alla cultura dello Stato di diritto e del costituzionalismo. Era quindi necessario mettere fine a un’azione percepita dal contribuente medio come un inutile sperpero di denaro pubblico, nonostante le limitate forze impiegate recentemente.

La decisione del presidente americano, Joe Biden, ha soltanto accelerato il programma di abbandono dell’Afghanistan delineato da Donald Trump. Tale scelta non va però letta come una ritirata ingloriosa. Certo, i paragoni tra gli elicotteri che evacuano il personale diplomatico da Kabul e quelli che abbandonarono Saigon nel 1975 al termine della guerra del Vietnam, sono un ottimo carburante per la propaganda antiamericana. Ma a Washington hanno fatto una scommessa. Se l’Afghanistan, nell’ultimo secolo e mezzo, è stato “la tomba degli imperi”, vanificando gli sforzi di inglesi, sovietici e americani di domarlo, perché non lasciare che il Paese inghiotta anche i cinesi?

Questi guardano infatti con interesse alle opportunità connesse al ritiro occidentale. Il ministro degli Esteri di Pechino, Wang Yi, ha incontrato i rappresentanti dei talebani in diverse occasioni, promettendo investimenti e collaborazione. La Cina ha sottolineato che, coerentemente con la sua tradizionale politica estera, non intende entrare negli affari interni afghani. Per Pechino, il territorio controllato da Kabul è molto importante per rafforzare la sua proiezione geopolitica verso l’Asia centrale e il Mare Arabico. E intende usare la leva dei progetti infrastrutturali nel quadro delle Nuove Vie della Seta. In particolare, i cinesi vorrebbero inserire l’Afghanistan nello sviluppo del corridoio economico sino-pakistano. Questo prevede un investimento di 62 miliardi di dollari e 70 progetti diversi per costruire arterie stradali e ferroviarie, oleodotti, centrali elettriche e reti per la fibra ottica. L’obiettivo è di collegare la città cinese di Kashgar, nello Xinjang, con il porto pakistano Gwadar.

Utilizzando il territorio afghano, il corridoio sarebbe più efficiente, alleggerendo o aggirando alcuni passi himalayani particolarmente impervi. Ma in ballo ci sono anche i piani di collegamento tra la Cina e l’Iran, soprattutto con il porto di Chabahar. In questo caso, l’Afghanistan permetterebbe di aggirare completamente il Pakistan, riducendo la dipendenza di Pechino da Islamabad e limitandone il potere contrattuale. Attraverso tali progetti infrastrutturali, i cinesi intendono aggirare lo Stretto di Malacca, saldamente controllato dagli americani e dai loro alleati malesi e indonesiani.

Ma Pechino guarda a Kabul anche per le sue risorse naturali. Il Governo americano stima che l’Afghanistan disponga di riserve minerarie per un valore di 3.000 miliardi di dollari e, in particolare, di grandi giacimenti di terre rare. Questi elementi chimici sono presenti in quantità minime nella crosta terrestre, ma sono fondamentali per i prodotti high tech. La scommessa degli Stati Uniti è che la Cina, attratta da queste opportunità, finisca per affogare nel pantano afghano. Un altro rischio è che i talebani possano sostenere segretamente o anche solo galvanizzare gli uiguri dello Xinjang. È proprio questa provincia ribelle, che i separatisti amano chiamare Turkestan Orientale, l’unica a confinare per un breve tratto di 80 km con l’Afghanistan.

La minoranza turcofona e sunnita, costituita da poco più di 11 milioni di persone, è oggetto di dura repressione da parte delle autorità di Pechino. Esse hanno sempre respinto le accuse di gravi violazioni dei diritti umani come intromissioni in questioni interne. Ma la paura segreta dei cinesi è proprio di assistere a un rafforzamento dell’indipendentismo uiguro. Perché uno Stato governato da un gruppo fondamentalista islamico come l’Afghanistan dei talebani facilmente si trasforma in un polo d’attrazione. Anche solo dal punto di vista ideologico e identitario, esso attira quei gruppi etnici oppressi, speranzosi di ottenere sostegno grazie alla fede religiosa condivisa. Lo stesso discorso vale per le altre formazioni radicali dell’Islam sunnita, da Al Qaeda a Daesh, solo per citare quelle più note. Ma il pericolo si presenta anche per le organizzazioni attive nelle ex Repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Queste guardano con non meno preoccupazione a quanto accade a Kabul.

La Russia condivide la stessa apprensione. Mosca ha vissuto con un certo compiacimento il fallimento dei progetti occidentali in Afghanistan. Per il Cremlino si tratta quasi di un risarcimento della Storia per la drammatica occupazione sovietica, tra il 1979 e il 1989, che ne accelerò l’implosione. Ciononostante, a Mosca faceva comodo che fossero gli americani e il loro alleati a spendere miliardi per garantire un minimo di stabilità a Kabul. Adesso il rischio è che l’Afghanistan si pianti come una spina nel fianco dei fragili Stati centroasiatici, che Mosca considera area di sua competenza. Inoltre, la Russia teme il risveglio del terrorismo islamista nel triangolo compreso tra Astrachan, alla foce del Volga, la Cecenia e i territori caucasici, al confine con la Georgia e l’Azerbaigian.

Non a caso, Mosca ha avviato, seppur con molta cautela, un dialogo con i talebani già nella seconda metà dell’anno scorso. Lo scopo è di ottenere rassicurazioni sul disinteresse degli studenti coranici verso quei territori sensibili al richiamo fondamentalista, ma anche di cogliere le opportunità nascenti. Tale aspetto resta però ancora sullo sfondo. Perché al momento un nuovo regime talebano è più un rischio che un’occasione di investimento e di estensione della proiezione geopolitica russa. A Mosca non hanno infatti dimenticato che lo Stato talebano abbattuto nel 2001 aveva riconosciuto l’indipendenza della Cecenia. L’Iran condivide timori analoghi. Nell’area del Khorasan e del Baluchistan persiano sono infatti presenti minoranze sunnite. Queste possono costituire un terreno fertile per il fondamentalismo talebano nonché un sostegno per il contrabbando e i traffici di droga provenienti dall’Afghanistan.

Chi invece spera di trarre vantaggi dai fatti di queste settimane è il Pakistan. Il movimento degli studiosi coranici ha sempre considerato come casa propria l’area tribale compresa tra le città di Peshawar e Quetta. Durante il ventennio di presenza occidentale a Kabul è proprio in quelle regioni remote che i talebani hanno trovato rifugio e protezione. Inoltre, essi sono pashtun, appartengono cioè allo stesso gruppo etnico-linguistico delle genti del Pakistan occidentale.

È lontano ormai il tempo in cui Islamabad era al fianco di Washington nel contenimento dell’Iran di Khomeini e dell’India, amica dell’Unione Sovietica. Ora Nuova Delhi è un alleato prezioso degli americani nel confronto con la Cina. E le antiche dispute territoriali e rivalità tra i due Paesi sorti dalla fine dell’impero coloniale britannico hanno spinto il Pakistan a diventare il principale alleato di Pechino nell’Asia meridionale. Con il ritorno dei talebani a Kabul, Islamabad spera di mantenere un certo ascendente sugli studenti coranici, traendo vantaggi commerciali e geopolitici. L’obiettivo è dotarsi di un retroterra per avere maggiore profondità strategica, utile nel confronto con l’India, estendendo anche la sua influenza verso l’Asia centrale.

Anche la Turchia e il Qatar proveranno a inserirsi nel gioco afghano. Recep Tayyip Erdoğan aveva manifestato l’intenzione di lasciare un piccolo contingente a protezione dell’aeroporto di Kabul. Poi gli eventi sono precipitati i turchi hanno abbandonato il piano. Questo non significa che Ankara abbia rinunciato alle sue ambizioni. Tutto però dipende da come i talebani organizzeranno il loro regime e se decideranno di intraprendere un percorso evolutivo tale da condurli nell’alveo della Fratellanza musulmana, guidata da Ankara e Doha. Gli studenti coranici rappresentano un’organizzazione fondamentalista, che non hai mai fatto mistero di sostenere il terrorismo internazionale di Al Qaeda e accoliti. Allo stesso modo, è noto che la loro ideologia è frutto di un’interpretazione rigida e letterale delle prescrizioni coraniche, per certi aspetti vicina al wahabismo saudita, mescolata a regole ancestrali della tradizione pashtun. Ciononostante, un approccio più pragmatico e meno dogmatico è nell’interesse degli stessi talebani.

Questi dovrebbero sapere che una semplice restaurazione del vecchio regime non è possibile. Negli ultimi due decenni, il mondo si è evoluto e mantenere il Paese completamente isolato è molto più difficile, oltre che controproducente. Inoltre, non bisogna dimenticare che non tutto l’Afghanistan condivide l’origine etnica dei talebani. I pashtun rappresentano meno della metà della popolazione. Ci sono altri gruppi, come i tagiki, pari a circa un quarto degli abitanti, e poi turkmeni, uzbeki, hazara ed etnie minori. Tutta la parte settentrionale del Paese non ha mai accettato il dominio degli studenti coranici, soprattutto nella provincia del Panjshir, patria del leggendario generale Massoud. L’eroe della resistenza ai sovietici e ai talebani fu ucciso il 9 settembre 2001 in un attentato e oggi già si parla di un embrione di resistenza al regime, in formazione intorno al figlio Ahmad.

Il rischio è che l’Afghanistan precipiti di nuovo nella guerra civile, facendo scappare tutti i possibili investitori, cinesi inclusi. È quindi nell’interesse dei talebani arrivare a un accordo per la condivisione del potere con gli altri gruppi etnici. E di concordare un patto sociale non limitato all’applicazione tout court della versione più radicale della sharia, ma aperto a elementi della modernità e al rispetto dei diritti basilari della persona. Ricadere negli errori del passato sarebbe fatale. Non si tratta dell’impossibile “svolta moderata” degli studenti coranici, che qualche politico italiano poco esperto immagina. Ma di adottare un approccio improntato al realismo in un Paese che non ha disdegnato di umiliare tre imperi. Figuriamoci i talebani.

Foto: ilpost.it