I lettori abituali di questo sito sanno che sono un convinto sostenitore della necessità urgente di accrescere l’influenza italiana nel Mediterraneo. È inammissibile che il nostro Paese, collocato al centro di un bacino fondamentale per gli equilibri geopolitici contemporanei abbia un peso così limitato. Due recenti appuntamenti internazionali, solo apparentemente scollegati, potrebbero gettare le basi per un’inversione di tendenza, a patto di non perdere tempo prezioso. Si tratta della visita del ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, a Washington e della cena di lavoro a Marsiglia tra il premier, Mario Draghi, e il presidente francese, Emmanuel Macron.
Gli Stati Uniti ci chiedono da tempo un impegno maggiore nel Mediterraneo per consentire loro di concentrare gli sforzi nel contenimento della Cina nell’Indo-Pacifico. Piaccia o no, Roma fa parte dell’impero europeo degli americani, costruito durante la seconda guerra mondiale e consolidato nei decenni del mondo bipolare. Tale condizione non è modificabile, almeno nell’orizzonte temporale visibile, ed è in malafede chi vaneggia di autonomie strategiche, che peraltro l’Italia non ha mai avuto. Rispondere quindi agli inviti degli Stati Uniti ci permette di raggiungere il duplice risultato di rafforzare la proiezione geopolitica ed economica nazionale lì dove effettivamente si concentrano i nostri interessi e di poter contare su Washington nei dossier più importanti per Roma. A partire dalla Libia e dal contenimento della Turchia in Nord Africa e nel Levante fino alle trattative per il nuovo segretario generale della NATO.
Al di là di alcuni episodi isolati, come le elezioni del 1948, quando era in gioco la collocazione dell’Italia nel campo occidentale, il nostro Paese non rientra tra gli interlocutori privilegiati degli americani. Gli apparati di Washington ci considerano come un alleato fidato ma secondario. La cosa più grave è che gli americani sono abituati a dare per scontato l’appoggio italiano, sapendo che Roma non chiederà nulla in cambio. In Libano, ad esempio, vantiamo una presenza pluridecennale nella missione UNIFIL delle Nazioni Unite, di cui abbiamo anche il comando. Ma nessun Governo romano ha mai pensato di capitalizzare questo notevole sforzo militare ed economico. Mai abbiamo avanzato richieste di appoggio alla potenza di riferimento in altre partite geopolitiche.
Il sostanziale disinteresse americano verso il nostro Paese è venuto meno nel 2019, lasciando spazio a una crescente irritazione. A marzo, il Governo di Giuseppe Conte aveva suggellato il suo avvicinamento alla Cina con la firma del memorandum sulle Nuove vie della seta. La partecipazione italiana al progetto di infrastrutture e reti commerciali annunciato da Pechino nel 2013 aveva suscitato grande preoccupazione. A questo si aggiungevano le simpatie leghiste per la Russia di Putin. Il potenziale deragliamento della tradizionale politica estera italiana si è trasformato però in un “giro di walzer” isolato. Hanno pesato le pressioni di Washington, ma anche l’intervento discreto e deciso del Quirinale, dell’intelligence, della Farnesina e di una parte del mondo politico.
Già il Governo Conte II aveva fatto inversione di marcia. Nel gennaio 2020 il ministro della Difesa si era recato a Washington per ricucire lo strappo. A inizio di quest’anno, nave Cavour è partita per Norfolk per imbarcare i caccia F-35B e acquisire la certificazione al loro utilizzo. Gli americani erano arrivati a paventare l’esclusione italiana dal programma di impiego dei velivoli di ultima generazione, in caso di eccessivo avvicinamento a Pechino. La svolta è però avvenuta con Mario Draghi. Già nei suoi discorsi per la fiducia alle Camere, il premier ha indicato nell’atlantismo e nell’europeismo i pilastri della sua azione internazionale. Tale indirizzo di politica estera ha rassicurato gli Stati Uniti, che hanno ripreso a chiedere un maggiore impegno dell’Italia nel cosiddetto Mediterraneo allargato, da Gibilterra fino al Golfo. L’invito è stato rinnovato dal segretario alla Difesa, Lloyd Austin, in occasione della visita di Guerini nella capitale statunitense.
L’occasione è buona per capitalizzare il lavoro italiano nell’evacuazione degli afghani minacciati dal nuovo regime talebano e consolidare la nostra posizione tra le potenze occidentali. Si tratta ora di concentrare gli sforzi politici, economici e militari nei mari e nelle terre intorno alla Penisola. Ed è qui che entra in gioco la Francia. L’Italia non ha le risorse per svolgere un compito di tale portata. Arginare le velleità turche, sorvegliare i russi in Siria, in Libia e nei Balcani nonché limitare le ambizioni cinesi nel mare nostrum richiedono impegno. Ed è indispensabile disporre una proiezione geopolitica più forte della nostra. Parigi ha tali qualità e, pur essendo un alleato sui generis degli Stati Uniti, ha interesse a rispondere alle richieste americane di affidare ai partner la sicurezza del Mediterraneo. Neanche la Francia però può agire da sola. Ecco perché la collaborazione tra le due sorelle latine è necessaria e vantaggiosa.
L’incontro tra Draghi e Macron della settimana scorsa testimonia una cordialità italo-francese che non si vedeva da tempo. Bisogna tornare agli anni di Bettino Craxi e François Mitterand per ritrovare una tale intimità. I mesi delle scintille su immigrazione, caso Battisti, competizione in Libia e Tunisia, gilet gialli e accuse di neocolonialismo in Africa occidentale sembrano molto lontani. Eppure, era solo l’inizio del 2019, quando Parigi richiamava il suo ambasciatore a Roma definendo “assurde e infondate” le pretese del Governo Conte I. Ora invece i negoziati per il Trattato del Quirinale sono a buon punto e l’accordo dovrebbe essere firmato entro l’anno. L’obiettivo è di inserire in un quadro stabile e strutturato la collaborazione italo-francese.
L’Esagono guarda verso lo Stivale in cerca di appoggio in un’Unione Europea sempre più a trazione tedesca. L’idea di Parigi, per decenni, è stata quella di utilizzare l’asse franco-tedesco, costruito ai tempi di De Gaulle e Adenauer, per controllare Berlino e trarre vantaggio dal processo di integrazione europeo, facendo delle istituzioni comunitarie una cassa di amplificazione della declinante potenza francese. Ora il meccanismo sembra essersi inceppato. La Germania ha dimostrato di guardare prima di tutto ai suoi interessi e di modulare le sue scelte in maniera coerente con essi. Inoltre, la Francia teme il ritorno alle politiche di austerità, dopo le concessioni dovute all’eccezionalità della crisi pandemica. E questo Parigi non può permetterselo, in un momento di forti tensioni interne, che sembrano quasi mettere in discussione le fondamenta del patto sociale francese.
Ecco quindi che Oltralpe si sono ricordati dell’Italia (e in misura molto minore, anche della Spagna). Roma è il partner ideale per bilanciare la crescente autoreferenzialità della Germania. Ora i francesi accarezzano l’idea di un fronte dell’Europa mediterranea, capace di mettere insieme la seconda e la terza manifattura del continente. Questo non cancella i legami stretti con i tedeschi, ma lancia il messaggio che la speranza berlinese di una Francia a rimorchio del vicino orientale non troverà realizzazione.
Che sia il famoso amour propre dei francesi o una reazione alla decadenza percepita come incalzante non è facile da capire. Fatto sta che la collaborazione tra le due sorelle latine ora appare vantaggiosa per entrambe. “Solo Parigi è degna di Roma e solo Roma è degna di Parigi”: con queste parole le due capitali sono gemellate in maniera reciproca ed esclusiva dal 1956. Le circostanze hanno creato le condizioni ideali affinché l’Italia e la Francia capiscano che l’abbandono dei pregiudizi e di un certo senso di superiorità dei vicini d’Oltralpe creano vantaggi inaspettati. E, oltre alla dimensione comunitaria, è proprio nel Mediterraneo che i due Paesi, con la benedizione di Washington, possono concretizzare tale opportunità.
Gli interessi italiani e francesi nell’area non sempre sono compatibili. Il crollo del regime di Gheddafi fu conseguenza anche del tentativo di Parigi di sostituirsi agli italiani nell’influenza sull’antica colonia; i francesi considerano il Maghreb come pertinenza esclusiva dell’Esagono e lo stesso vale per alcune zone del Levante. Ma i margini per la collaborazione sono ampi. L’attivismo turco si è trasformato in una minaccia per entrambi i Paesi. L’atteggiamento italiano può bilanciare la durezza della posizione francese e contenere Erdoğan, senza arrivare a una rottura. Cosa che gli Stati Uniti peraltro non accetterebbero, perché non disposti a rinunciare alla Turchia come argine alle velleità russe. Inoltre, Washington sarebbe ben felice di avere degli alleati disposti a ridurre il peso di Mosca dalle parti di Bengasi. Lo stesso vale per i tentativi di ingresso nel Mediterraneo, per ora limitati quasi solo agli aspetti commerciali ed economici, da parte dei cinesi.
Sul piano tecnico, la cooperazione può assumere la forma di contatti più stretti e frequenti proprio sul mare. La Marine Nationale, che ha a Tolone la sua base principale, ha un raggio d’azione globale e la collaborazione con la nostra Marina Militare è ampiamente consolidata. Certo, l’Italia dovrebbe investire di più in questa forza armata. Disponiamo di una flotta sempre più moderna ma le sue dimensioni in termini di effettivi e di navi sono ridotte e destinate ad assottigliarsi nei prossimi anni. È quindi necessaria una riflessione seria nel mondo politico per capire che una Marina più potente è funzionale alla difesa degli interessi politici ed economici dell’Italia.
Il clima è dunque favorevole a intrecci mediterranei tra Roma, Parigi e Washington, ma il tempo per dare forma a tale potenziale è poco. Macron sarà sempre più assorbito, nei mesi a venire, dalla campagna elettorale per la rielezione. Anche il futuro di Draghi è incerto, tra ipotesi di elezione al Quirinale e di continuazione dell’incarico a Palazzo Chigi fino alle elezioni politiche. Eppure, uno sforzo comune, al di là degli stereotipi e delle diffidenze, è funzionale alla difesa di interessi condivisi, che si mescolano tra le onde del Mediterraneo.
Foto: startmag.it
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