C’è stato un tempo in cui gli equilibri geopolitici del Medio Oriente sembravano immutabili nella loro drammatica precarietà. Conflitti e alleanze, violenze e accordi seguivano schemi ormai consolidati e facilmente prevedibili. La parte di mondo compresa tra lo stretto di Hormuz e il canale di Suez, lungo la direttrice est-ovest, e tra le coste turche sul Mar Nero e i lidi yemeniti e omaniti, sull’asse nord-sud, appariva semplice da comprendere e analizzare, pur nella sua lista infinita di rivalità regionali e interferenze esterne. La chiave di volta dell’intero sistema erano gli Stati Uniti. Oggi le cose stanno rapidamente cambiando. Ma non nel senso auspicato dagli oppositori della potenza americana. Il valore geopolitico dell’area è mutato per gli apparati statunitensi, però le chiavi del Medio Oriente sono sempre a Washington.
Il 15 febbraio 1945, a bordo dell’incrociatore USS Quincy, ormeggiato nel Grande Lago Amaro del canale di Suez, il presidente americano Roosevelt incontrò il re saudita Abdul Aziz ibn Saud. Nasceva l’amicizia tra Washington e Riad. La guerra aveva accelerato il processo di affermazione del petrolio quale fonte di energia principale del sistema economico americano. E gli Stati Uniti identificavano nel regno saudita il principale fornitore di oro nero per gli anni a venire. Le prime prospezioni nel deserto erano avvenute già negli anni Trenta, ma il conflitto mondiale aveva bloccato l’attività delle compagnie americane. In cambio, Riad riceveva quella protezione, che gli inglesi non erano più in grado di offrire, oltre a favolose rendite petrolifere. Terminato il processo di decolonizzazione nel Golfo, con l’indipendenza di Bahrain, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Oman all’inizio degli anni Settanta, tutta l’area si trasforma nella cassaforte energetica di Washington.
Tale ruolo non ha subito modifiche per decenni. Durante la guerra fredda, Mosca non ha mai veramente progettato di insidiare il potere americano in Medio Oriente. Decine di migliaia di soldati di stanza nell’area e numerose basi, attive ancora oggi, rendevano palese tutto questo. Solo in contesti periferici e senza mai acquisire carattere strutturale, le azioni sovietiche apparivano più come disturbo all’egemonia americana che come reali sfide. Terminato il capitolo del confronto bipolare, niente sembrava presagire cambiamenti profondi. Poi è arrivato lo shale oil e, quasi di colpo, il Medio Oriente non è stato più lo stesso agli occhi dei decisori americani.
Ancora nel 2005, gli Stati Uniti coprivano con le importazioni circa il 70 % del loro fabbisogno petrolifero. Le cose sono cambiate negli ultimi anni della presidenza di George W. Bush e soprattutto durante le amministrazioni di Barack Obama. Lo sviluppo tecnologico degli ultimi due decenni ha reso sempre meno costosa l’estrazione di olio minerale da sabbie bituminose e rocce, prima considerata antieconomica. Questo ha permesso la crescita folgorante delle produzione domestica americana, tanto che oggi gli Stati Uniti sono un esportatore netto di idrocarburi.
Il settore è riuscito a resistere ai contraccolpi della grande crisi economica del 2008 e al tentativo dei sauditi di distruggere i piccoli e medi produttori. Riad, tra il 2015 e il 2017, ha aumentato a dismisura l’offerta petrolifera. Il conseguente abbassamento dei prezzi era sostenibile per i sauditi, grazie alla loro quota di mercato a livello globale e ai costi di estrazione, che sono i più bassi al mondo. Ma il piano non ha funzionato, incoraggiando addirittura le fusioni e le acquisizioni per la costituzione di società più grandi, attive soprattutto in Texas. La pandemia è stata un altro duro colpo per lo shale oil americano, con il crollo della domanda legato alle chiusure per limitare la circolazione del Covid-19. Ma la ripresa dei consumi e dei prezzi crea ottimismo nei produttori americani, anche se la crescente sensibilità verso i temi ambientali e la transizione energetica rappresentano nuove sfide.
Il Medio Oriente non riveste più dunque il ruolo di stazione di rifornimento della potenza americana, che ha determinato per decenni la politica di Washinton. Questo non significa però che gli Stati Uniti abbiano rinunciato alla loro egemonia nella regione. In geopolitica il vuoto non esiste. Di conseguenza, se degli spazi sono lasciati liberi da un soggetto, subito subentra un altro attore ad accaparrarsi il posto.
Il sistema contemporaneo delle relazioni internazionali è dominato dalla rivalità crescente sul piano politico, economico, militare e tecnologico tra gli Stati Uniti e la Cina. E gli americani non possono permettersi che il Medio Oriente sia lasciato scoperto. I Paesi dell’area sono ancora i principali fornitori petroliferi di molti alleati europei e asiatici. Inoltre, Washington sta incoraggiando soluzioni per allentare la dipendenza dell’Unione europea dal gas russo, che passano anche per l’aumento delle importazioni dal Golfo. Anche la dimensione geografica non può essere ignorata. La regione si trova infatti in una posizione di cerniera tra il Vecchio Continente, che resta il cuore dell’impero americano, e l’Asia indo-pacifica, dove gli americani intendono relegare e soffocare le aspirazioni cinesi a minare il loro ruolo di superpotenza globale. Anche la sicurezza delle rotte marittime e la libertà di navigazione lungo la rotta Gibilterra-Suez-Bab el Mandeb inducono gli Stati Uniti a non dimenticarsi dell’area.
Per impedire che il Medio Oriente diventi terreno di conquista per Pechino o destinazione privilegiata delle nuove ambizioni della Russia, Washington non può abbandonare il campo. Ciononostante, gli americani hanno modificato il loro approccio. Energie sempre più consistenti sono destinate all’Indo-Pacifico per contenere l’ascesa cinese. Questo però non ha portato a quello che talvolta, in maniera semplicistica, è presentato come l’inizio del disimpegno statunitense dalla regione. Niente di più sbagliato. Semplicemente, sta cambiando il modo in cui Washington si rapporta la Medio Oriente, che, da essenziale, è diventato molto importante per gli apparati americani. L’area non si trova più in cima alla lista delle priorità della politica estera degli Stati Uniti, ma non è scomparsa dalla loro agenda internazionale. Washington si limita a sorvegliare da lontano la regione, diminuendo la consistenza delle forze militari oppure affidando ad alleati compiti prima gestiti in maniera diretta.
Se la vigilanza costante serve a impedire che competitor globali acquisiscano posizioni in Medio Oriente, altrettanto fondamentale è mantenere gli equilibri tra le potenze regionali. Gli Stati Uniti hanno interesse affinché nessun Paese acquisisca una posizione egemonica. È con queste intenzioni che la presidenza Trump ha accresciuto al massimo la pressione sull’Iran. L’obiettivo era di impedire la costruzione di un crescente sciita, esteso fino alle coste di Libano e Siria. Ed è con le medesime intenzioni che l’amministrazione Biden ora cerca di definire un nuovo modus vivendi con Teheran, ormai incapace di dare forma alle sua ambizioni regionali. Per le stesse ragioni, Washington guarda con crescente irritazione alle velleità della Turchia e agirà per limitarle. Anche se Ankara gode di margini di manovra più ampi degli iraniani, nella misura in cui i turchi restano tradizionale baluardo contro gli appetiti russi.
Una conseguenza rilevante dell’impegno americano a evitare l’affermazione di singole potenze mediorientali è la consapevolezza degli aspiranti a tale ruolo di non poter più ricorrere all’ombrello protettivo di Washington come nel passato. Oggi sarebbe impensabile per i sauditi rapportarsi agli iraniani con la tracotanza degli anni passati, quando erano sicuri della protezione americana. Gli attacchi contro gli impianti petroliferi di Abqaiq e Khurais del settembre 2019 e i sabotaggi alle petroliere in transito nel Golfo o nel Mare Arabico, condotti da forze più o meno vicine all’Iran, non hanno comportato la risposta immediata degli Stati Uniti a protezione dei loro alleati. Riad e Abu Dhabi non hanno nascosto la loro sorpresa, che però conferma l’approccio nuovo di Washington. Le timide aperture saudite a dialogare con gli iraniani, con la mediazione delle autorità irachene, sono frutto della consapevolezza di non poter più contare su assegni in bianco firmati dagli americani.
Il Medio Oriente contemporaneo è dunque ancora saldamente controllato dagli Stati Uniti. Anche se la sua funzione di fornitore petrolifero di Washington è venuta meno negli ultimi quindici anni, grazie allo shale oil domestico. Non potendo rischiare di vedere i cinesi e i russi tra Suez e Hormuz né una scacchiera mediorientale di potenze in lotta continua per l’egemonia, gli americani mantengono le chiavi della regione. La loro presenza è meno appariscente rispetto al passato ma di certo non meno incisiva.
Foto: asianews.it
Fonti e approfondimenti
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K. E. Young, The MBS economy. Can technocratic reforms save Saudi Arabia?, Foreign Affairs, 27 gennaio 2022;
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E. Rossi, Medio Oriente e Nord Africa. Priorità e strategie per gli USA, Formiche.net, 22 novembre 2021;
G. Dentice, Quale engagement per gli USA nel Mediterraneo e in Medio Oriente?, Ce.S.I, 20 luglio 2021;
ISPI, USA e Medio Oriente: vicini lontani, 29 giugno 2021;
S. Pioppi, Ufficiale, l’Italia guiderà la Nato in Iraq. Ora inizia la (vera) missione, Formiche.net, 28 luglio 2021;
G. Acconcia, Tra Siria, arresti e gas: la politica estera di Biden in Medio Oriente alle prese con la Turchia di Erdoğan, Huffington Post, 11 maggio 2021;
L. Martin, Bilan des relations entre l’administration Trump et l’Iran, Les clés du Moyen-Orient, 3 febbraio 2021;
S. Pelizza, Amici problematici: Roosevelt e l’inizio dell’alleanza USA – Arabia Saudita, Il Caffè Geopolitico, 14 febbraio 2020.
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