Pochi giorni fa, nave Vespucci, orgoglio della nostra Marina Militare, ha fatto scalo nel porto di Algeri, prima di ripartire alla volta di Lisbona. Non accadeva dal 1985, cioè da ben 37 anni. La tappa nella capitale nordafricana testimonia delle relazioni molto cordiali, che l’Italia intrattiene in questo momento con l’Algeria. Tali rapporti sono il frutto della volontà di Roma di ridurre in breve tempo la dipendenza dal gas russo, ma anche di una rinnovata attenzione verso il Mediterraneo e i Paesi della sponda sud. La politica, gli operatori economici e la società civile, seppur lentamente, stanno prendendo coscienza che non possiamo più far finta di niente. Dal mare che ci circonda dipende il futuro del Paese e l’Italia non può non occuparsene. Pena l’irrilevanza, o cose ancora peggiori. Sarebbe un errore esiziale se il parlamento e il governo usciti dalle imminenti elezioni politiche decidessero brusche sterzate in politica estera.

Fin dal suo insediamento a Palazzo Chigi, Mario Draghi ha fatto dell’atlantismo e dell’europeismo i pilastri del suo manifesto di azione internazionale. Per l’Italia, corollario obbligato di tale impostazione è volgere lo sguardo al Mediterraneo. Dal mare dipende la metà del nostro export e arrivano il 62% delle importazioni e il 95% delle materie prime. Inoltre, la sponda sud, con intensità variabile a seconda dei contesti nazionali, è attraversata da processi di disgregazione politico-sociale impossibili da ignorare. Il rischio è che le conseguenze di tali fenomeni ci colpiscano all’improvviso come una valanga difficile da arrestare. E non si tratta solo dei flussi migratori, che vanno affrontati come fenomeno strutturale e duraturo, invece di ricorrere all’inefficace approccio emergenziale. Ci sono anche le questioni energetica e di sicurezza marittima nonché la pretesa degli Stati rivieraschi di estendere la giurisdizione sempre più lontano dalla costa.

A tali problemi si aggiunge la crescente rivalità tra le potenze americana, cinese e russa nell’area mediterranea. Che piaccia oppure no, l’Italia è parte dell’impero europeo degli Stati Uniti, costruito con la vittoria sulla Germania nazista nel 1945. Disponiamo quindi di margini di manovra compresi entro uno spettro d’azione abbastanza definito. È così da quasi ottant’anni ed è un’anima candida o, più probabilmente, in malafede chi vaneggia di autonomie non meglio definite o di pericolosi avvicinamenti a potenze che, dietro lusinghe e promesse vaghe, nascondono soltanto il desiderio di portare avanti le loro partite geopolitiche. Gridare ai quattro venti che Roma debba dotarsi di una politica estera libera e indipendente serve solo a galvanizzare qualche invasato. Anche perché questo presuppone idee chiare su cosa vogliamo. E purtroppo non è che brilliamo sempre quanto a definizione di strategie per il perseguimento di obiettivi, talvolta oscuri perfino a noi stessi.

La nostra sovranità è limitata, e non solo in ragione del contributo agli ordinamenti che assicurano la pace e la giustizia tra le nazioni, di cui parla l’art. 11 della Costituzione. Questo non significa certo che non abbiamo degli interessi da perseguire. Anche se tutto il sistema-Paese dovrebbe fare uno sforzo più corale per individuarli e difenderli. Se poi tali interessi coincidono con quelli di Washington, abbiamo anche più possibilità che la nostra voce sia ascoltata al centro dell’impero. Giri di valzer, come il memorandum con la Cina del 2019 per la collaborazione nel quadro delle Nuove Vie della Seta, suscitano irritazione. Senza però creare preoccupazione negli Stati Uniti. Basta la nostra incostanza come garanzia del ritorno su posizioni più ortodosse, prima del successivo flirt con chissà chi, ma anche dell’inaffidabilità dell’Italia. Su questo punto abbiamo molto da lavorare, perché è la continuità che premia sforzi altrimenti inutili.

In questo momento, l’Italia ha due priorità nel Mediterraneo. La prima è di garantirsi approvvigionamenti energetici tali da limitare gli ammanchi dovuti ai tagli delle forniture dalla Russia. Prima dell’inizio dell’attacco all’Ucraina, era previsto che Mosca e Algeri inviassero rispettivamente 29 e 21 miliardi di metri cubi di gas. Entro la fine dell’anno, le quote dovrebbero essere invertite. Nel medio termine, la quasi totalità degli idrocarburi arriverà da sud, attraverso condotte sottomarine o via nave. Ecco perché è interesse di Roma assicurarsi un portafoglio di fornitori quanto più ampio possibile per ridurre l’impatto di interruzioni o brusche diminuzioni nelle esportazioni da tali Stati.

In questa fase di emergenza, l’Algeria sta dando un contributo importante, anche in ragione della possibilità di sfruttare infrastrutture già esistenti e dei tradizionali rapporti di amicizia che ci legano il Paese maghrebino. Non era scontato che il gigante nordafricano venisse in nostro soccorso. La Russia è infatti un partner dell’Algeria fin dai tempi della guerra fredda e rimane il suo primo fornitore di equipaggiamenti militari. Non possono essere escluse pressioni affinché la disponibilità algerina verso l’Italia sia più fredda. Evidentemente hanno pesato di più i legami di antica data tra i due Paesi mediterranei, che risalgono ai tempi della guerra d’indipendenza.

In quegli anni, l’ENI di Enrico Mattei e il governo di Roma appoggiarono la causa del Fronte di Liberazione Nazionale, con grande disappunto della Francia. Inoltre, nel decennio buio della guerra civile, alla fine del secolo scorso, molte imprese italiane non lasciarono l’Algeria, a differenza di tante aziende di altri Paesi. Tutto questo ha creato un terreno fertile all’approfondimento delle relazioni bilaterali, che Mario Draghi ha saputo sfruttare al meglio. I bei ricordi del tempo passato non sono però sufficienti a orientare le scelte degli Stati. Pesano anche considerazioni più prosaiche e contingenti.

L’aumento del prezzo degli idrocarburi è una benedizione per il sistema algerino. Questo dipende dai proventi dell’esportazione delle materie prime per coprire le spese e finanziare i sussidi a tanti generi di prima necessità. Dietro un’apparente struttura granitica, il regime è attraversato da fratture interne e teme l’esplosione della rabbia popolare, aggravata da corruzione e inefficienze. La destabilizzazione del Paese è sempre dietro l’angolo ed è interesse di Algeri, ma anche di Roma, che questo non accada. Più in generale, l’Italia ha bisogno di stabilità o, quanto meno, di un’instabilità che sia il più contenuta possibile nella fascia di Paesi compresa tra gli stretti di Gibilterra e Hormuz, passando per Suez e Bab el Mandeb. Il rischio è che si creino nuovi vuoti geopolitici, come già avvenuto in Libia e in Siria, presto colmati da potenze non proprio amichevoli verso di noi.

Lo scenario globale si va deteriorando. L’invasione russa dell’Ucraina ha sdoganato l’uso della forza come strumento di risoluzione delle controversie internazionali. Non può quindi essere escluso che altri Stati considerino la violenza come un’opzione prima impensabile. Il Marocco e l’Algeria, ad esempio, sono stati più volte sull’orlo di un conflitto aperto. I due Paesi hanno combattuto già nel 1963 a causa di contenziosi territoriali durante la cosiddetta guerra delle sabbie. Più recentemente, il riconoscimento americano della sovranità di Rabat sul Sahara occidentale ha acuito gli attriti latenti, fino alla rottura delle relazioni diplomatiche. Le parole concilianti di Muhammad VI, pronunciate a fine luglio in occasione dell’anniversario della sua ascesa al trono, non allontanano il pericolo di ulteriori fiammate di tensione.

Inoltre, la crisi in Europa orientale colpisce le società nordafricane e levantine sul piano alimentare. Tutti i Paesi dal Marocco alla Turchia dipendono in misura più o meno consistente dal grano e dai fertilizzanti esportati da Russia e Ucraina. Il blocco delle esportazioni dal Mar Nero genera preoccupazione per le scorte cerealicole. Sono in molti a temere nuove rivolte per il pane, destinate presto a tramutarsi in rivendicazioni politiche e sociali capaci di scuotere i regimi dell’area. Tra le cause delle cosiddette Primavere arabe del 2011 ci fu anche l’aumento del prezzo del grano registrato tra il 2008 e il 2009. Una nuova ondata di sconvolgimenti sarebbe molto pericolosa per l’Italia. La nostra posizione geografica ci espone alle conseguenze di ulteriore instabilità.

Che fare dunque? La prima cosa è acquisire consapevolezza dei rischi. Può apparire banale, ma è fondamentale rifuggire la tentazione tutta nostrana di fare finta di niente. È accaduto che eventi impattanti sugli interessi di Roma ci trovassero in altre faccende affaccendati. Oppure che la politica preferisse un imbarazzante silenzio, pur di non disturbare la parte di elettorato, che vede nell’impegno all’estero, compreso il ricorso alle forze armate, un inutile spreco. Ci ritroviamo i turchi saldamente radicati in Tripolitania proprio perché, nella primavera del 2019, le richieste di aiuto del governo di Fayez al Sarraj di fronte al tentativo di spallata del generale Haftar caddero nel vuoto. Non fu così ad Ankara, che ora raccoglie frutti di cui l’Italia avrebbe potuto beneficiare. La superficialità di allora ci costa cara ancora oggi, avendo aggravato una posizione di debolezza nell’antica colonia, risultato di altri errori, di rilevanza strategica, compiuti un decennio fa.

Evitato il pericolo dell’inconsapevolezza dei rischi provenienti da sud, dobbiamo evitare l’errore dell’inazione. Stare ad osservare la casa del vicino che brucia senza fare nulla è quasi grave come cullarsi tra le braccia di Morfeo, nella speranza di una magica scomparsa delle fiamme dell’incendio. Cosa può fare un’Italia finalmente cosciente che al di là del mare ci sono terre impossibili da ignorare? Non molto, in verità, almeno se pensiamo di poter fare tutto da soli. Il peso geopolitico del nostro Paese è ridotto, ma non trascurabile. Non disponiamo di energie politiche, economiche e militari per avere una proiezione globale. Però nel Mediterraneo possiamo far sentire la nostra voce. Soprattutto se comprendiamo di non poter scendere al di sotto di una certa soglia quantitativa di mezzi ed effettivi delle nostre forze armate, che la qualità e la professionalità non possono compensare.

La collaborazione con i nostri partner, soprattutto con la Francia la Spagna, può contribuire a meglio fronteggiare le sfide. Il nostro contributo sarebbe molto apprezzato anche a Washington, che vede proprio nell’Italia il Paese più adatto a occuparsi del Mediterraneo centrale e orientale. Sta a noi scegliere se assumerci tale responsabilità o no. E non dobbiamo cedere alla retorica di chi ci dipinge come servi degli americani. Essere presenti e attivi nel quadrante dove la geografia ci ha collocati è prima di tutto interesse fondamentale del nostro Paese. Se poi questo coincide con le aspettative del nostro alleato di riferimento, allora tanto meglio. Avremmo così più opportunità di far sentire la nostra voce, altrimenti poco considerata. Presupposto necessario è però la continuità del nostro sguardo verso il mare, che vada al di là delle maggioranze politiche. Perché i governi vanno e vengono, ma l’Italia resta.

Foto: rinnovabili.it

Fonti e approfondimenti

Questo articolo è concepito come un editoriale più che come un saggio, frutto delle mie conoscenze e riflessioni nonché della lettura della stampa quotidiana, alla quale si rimanda per la descrizione puntuale degli eventi citati nel testo.