Nel 2019, l’Italia deteneva una quota del 2,8% sul totale delle esportazioni, collocandosi al 9° posto a livello globale.
Nonostante la riduzione del contributo manifatturiero alla ricchezza nazionale e la crescita modesta della produzione nell’ultimo decennio, il Paese resta la terza economia dell’Unione europea. Siccome più dell’80% dell’interscambio commerciale italiano riguarda beni che viaggiano sul mare, sarebbe ideale che la ripartenza delle attività economiche, pesantemente colpite dalla pandemia di Covid-19, iniziasse proprio dai porti del Belpaese. A patto però che la classe politica e la società civile smettano di considerare il mare solo come fonte di sciagure, per acquisire consapevolezza delle opportunità derivanti dalla nostra posizione geografica.
In meno di un decennio, tra il 2009 e il 2018, la quota italiana nella movimentazione dei container nel Mediterraneo e Mar Nero è passata dal 23% al 18%, a vantaggio di Paesi come la Spagna, il Marocco e la Grecia. Questo dato, pur riferendosi solo a una parte del traffico mercantile, è indicativo del fatto che l’Italia non riesce a competere con i suoi vicini né con gli scali del Nord Europa. Tale ritardo interessa sia le merci in entrata e in uscita dal mercato unico sia le attività di transhipment, cioè di trasbordo del carico dalle grandi navi, in arrivo soprattutto dall’Estremo Oriente, a navi più piccole, dette feeder, dirette verso destinazioni minori.
Le ragioni della decadenza della portualità italiana sono molteplici, ma due incidono più di altre. Pesa innanzitutto il deficit infrastrutturale del Paese, risultato di decenni di mancati investimenti nell’ammodernamento della rete stradale e ferroviaria, indispensabile alla movimentazione rapida ed efficiente dei beni. Tali carenze impediscono agli scali italiani, soprattutto ai porti del Mezzogiorno, di sfruttare a pieno la posizione privilegiata di cui godono e di intercettare i traffici mercantili in provenienza da Suez. Un sistema di trasporti moderno e ben integrato potrebbe infatti compensare in buona parte la lontananza degli scali del Meridione dai mercati principali di destinazione dei beni. A queste difficoltà, si aggiunge il ritardo negli investimenti sulle infrastrutture portuali, necessari a dotare i porti del Paese non solo di banchine, di gru moderne e di fondali adeguati ad accogliere le grandi navi di ultima generazione, ma anche di tecnologie informatiche adatte a una gestione rapida delle attività degli scali.
Su questo punto, negli ultimi anni, sono stati registrati alcuni miglioramenti, soprattutto grazie alla concessione di aree a investitori privati, ma il ritardo resta evidente.
Un’altra causa del declino portuale italiano è costituita dalla mancanza, a livello di Governo centrale, di una gestione strategica di tale risorsa. Il Decreto Legislativo 28 luglio 2016 per la razionalizzazione e riorganizzazione dei porti ha rinnovato la vecchia normativa, risalente alla L. n.84 del 1994, basandosi sui pilastri della semplificazione burocratica e della creazione di Autorità di sistema portuale, dotate di poteri di indirizzo, di coordinamento e di programmazione. La riforma ha consentito di eliminare e di snellire molte procedure e di ridurre la frammentazione del sistema, ma resta immutato un limite di fondo. E cioè il fatto che, pure sugli scali marittimi italiani, prevale l’antica anima comunale del Paese, fatta di gelosie e di rivalità, anche tra porti con attività complementari, impedendo di creare sinergie e perfino di avere la sensibilità strategica necessaria a tali collaborazioni. Per questa ragione, è necessaria una regia nazionale gestita da Roma, magari a livello di presidenza del Consiglio, per coordinare il sistema portuale italiano, valorizzandone la funzione economica, strategica e geopolitica per l’intero Paese.
A tali difficoltà si aggiungono altri fattori, come il peso della corruzione e della criminalità organizzata oppure l’inefficienza del sistema giudiziario e della burocrazia, che scoraggia l’afflusso di capitali e rallenta la realizzazione di progetti ben concepiti. Un esempio è rappresentato dalle Zone economiche speciali (ZES), previste dal D.L. n.91 del 2017 per facilitare, mediante agevolazioni fiscali e semplificazioni amministrative, l’insediamento di imprese nelle regioni meridionali e incoraggiare l’interconnessione tra i porti di riferimento e il proprio retroterra. Le ZES ancora non sono operative, pur essendo state individuate in regioni come la Campania, proprio a causa delle lungaggini burocratiche incontrate dagli imprenditori.
Sul sistema portuale italiano pesano dunque tanti macigni, che ne impediscono o rallentano lo sviluppo. Eppure, per un Paese come il nostro, che dispone di quasi 8000 km di coste al centro del Mediterraneo, non dovrebbe essere difficile cogliere il potenziale di sviluppo e il carattere strategico di questo asset. Per superare gli ostacoli, più che una riforma, è necessaria una rivoluzione di carattere culturale, abbandonando l’idea del mare come frontiera sull’ignoto e fonte di minacce, per capirne l’importanza. Le risorse destinate all’Italia dall’Unione europea per rilanciare l’economia piegata dal Covid-19 sono identificate dalla vulgata politica e giornalistica come Recovery Fund, ma la denominazione corretta è “Next Generation EU”, evidenziando già nel nome che esse devono finanziare investimenti per lasciare alle generazioni di domani un Paese più moderno, un’economia più sostenibile e una società più prospera. Sarebbe una buona idea cominciare proprio dai porti.
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