Nella tarda serata di domenica 23 novembre, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha incontrato l’erede al trono dell’Arabia Saudita, Muhammad bin Salman, conosciuto anche con l’acronimo MBS. La notizia non è stata confermata, ma sono tanti i segnali che ne lasciano intendere la fondatezza. Il vertice, al quale avrebbe preso parte anche il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, è durato meno di due ore, largamente sufficienti però a inviare messaggi chiari sia all’Iran che al presidente eletto degli Stati Uniti, Joe Biden.

Il piccolo aereo privato con a bordo Netanyahu e, molto probabilmente, Yossi Cohen, capo del Mossad, il servizio segreto israeliano, è partito da Tel Aviv per farvi rientro poche ore dopo. La destinazione era sconosciuta, ma la rotta, facilmente individuabile accedendo ai principali siti di tracciamento dei voli in tempo reale, non è passata inosservata. L’aeromobile è infatti atterrato in Arabia Saudita, a Neom, smart city in costruzione da circa tre anni, pensata dal Governo di Riad come futura sede di imprese high-tech e meta turistica sul Mar Rosso.

La notizia di un volo diretto tra due Paesi che non hanno relazioni ufficiali ha già una certa rilevanza in sé, ma l’incontro tra Netanyahu e MBS, anche se non confermato, ha una portata molto più grande. Si tratterebbe infatti del primo vertice ufficiale tra lo Stato ebraico e la principale monarchia del Golfo, in vista del possibile avvio di rapporti diplomatici.

L’esistenza di colloqui occasionali e informali tra esponenti di peso della Casa di Saud e primi ministri o dirigenti dell’intelligence israeliana è nota fin dai tempi di Shabtai Shavit, direttore generale del Mossad tra il 1989 e il 1996. Ma è nell’ultimo decennio che i contatti tra Riad e Gerusalemme si sono intensificati.

La ragione principale dell’avvicinamento tra i due Stati è l’Iran, che entrambi contrastano come concorrente nell’affermazione della propria egemonia in Medio Oriente e come nemico capace di minacciare la sicurezza nazionale. La Repubblica islamica investe da anni ingenti risorse economiche, politiche e militari per rafforzare la sua proiezione internazionale, sia attraverso il sostegno diretto ad attori statuali come il Governo iracheno sia mediante aiuti a formazioni diverse tra loro, ma di tradizione sciita o impegnate a contrastare i suoi stessi avversari, come Hezbollah in Libano, Hamas nella Striscia di Gaza o i ribelli Huthi in Yemen. L’appoggio di Teheran è stato decisivo, insieme al soccorso di russi e turchi, per consentire al presidente siriano, Bashar al Asad, di non essere travolto dalle proteste popolari iniziate nel 2011 e di restare al potere, pur pagando il prezzo di una guerra civile costata centinaia di migliaia di morti, della distruzione del Paese e della temporanea affermazione dei terroristi del sedicente Stato islamico.

In tutti questi teatri, gli iraniani sono impegnati ad aumentare il peso geopolitico della Repubblica islamica per acquisire un ruolo egemone nella regione. Tali velleità trovano opposizione più dura proprio a Gerusalemme e a Riad, a capo di una cordata di altre capitali arabe, impaurite dalla prospettiva di avere alle loro frontiere Paesi vicini agli iraniani e al proprio interno comunità sciite, che guardano a Teheran come sostegno per avanzare rivendicazioni potenzialmente destabilizzanti per i Paesi in cui si trovano.

L’odio degli ayatollah per “il regime sionista” ha fatto di Israele un nemico di lunga data, pronto a contrastare in ogni modo le ambizioni iraniane e da sempre ostile al programma nucleare della Repubblica islamica, nel timore che Teheran possa utilizzare l’energia atomica per scopi militari. Gerusalemme non ha cambiato il proprio atteggiamento neanche in seguito all’accordo, concluso nel luglio 2015, tra l’Iran, i cinque membri permanenti del consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la Germania e l’Unione europea. Il trattato prevedeva una marcata riduzione delle attività della Repubblica islamica in campo nucleare e ispezioni da parte dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), in cambio della progressiva rimozione delle sanzioni economiche, imposte soprattutto dai Paesi occidentali. Il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo, annunciato dal presidente Trump l’8 maggio 2018, ha svuotato il trattato di ogni rilevanza politica, aprendo la strada al ritorno delle sanzioni. L’obiettivo del presidente americano uscente è di strangolare l’economia iraniana per suscitare nella popolazione un malcontento tale da abbattere il regime o almeno da convincerlo a riaprire le trattative, accettando un accordo che ponga fine definitivamente alle ambizioni nucleari della Repubblica islamica e alle sue velleità egemoniche sul Medio Oriente.

La scelta della massima pressione è stata molto apprezzata a Riad e a Gerusalemme, ma le due capitali temono che l’amministrazione di Joe Biden, che sarà inaugurata a gennaio 2021, possa essere più propensa a riprendere il dialogo con l’Iran. Anche se non è detto che il nuovo presidente americano adotti un approccio radicalmente diverso nei rapporti con la Repubblica islamica, la sola esistenza di tale possibilità è sufficiente a impensierire israeliani e sauditi, che con l’incontro al vertice del 23 novembre scorso intendono mostrare la solidità del fronte anti-iraniano in Medio Oriente. Inoltre, Riad e Gerusalemme comunicano alla futura amministrazione americana di non essere disposte a rinunciare ai potenziali vantaggi per i loro sistemi economici, complementari sotto molti punti di vista, derivanti dall’avvio di relazioni diplomatiche, per subordinarli a questioni considerate ormai solo ideologiche, ma care ai democratici statunitensi, come la soluzione della questione palestinese.

Se l’incontro di Neom fosse stato destinato a rimanere segreto, sarebbe rimasto facilmente tale in ragione della rodata capacità di israeliani e sauditi di mantenere riservati i loro contatti. Se questo non è avvenuto, nonostante il tweet pro forma del ministro degli Esteri di Riad che negava ogni colloquio tra Netanyahu e MBS, è soltanto perché Gerusalemme e Riad sono più vicine dei 400 km che, in linea d’aria, separano l’aeroporto di Tel Aviv da quello di Neom.