Il 14 gennaio di dieci anni fa, il regime di  Zine El Abdine Ben Ali crollava sotto il peso delle proteste popolari. Oggi la Tunisia è l’unica democrazia nata dall’ondata di rivolte che sconvolse il mondo arabo nel 2011. Ma le fragilità del sistema politico e istituzionale sono strutturali e questo impedisce di affrontare i problemi economici e sociali, aggravati dalla pandemia di coronavirus.

Proprio in questi giorni, il primo ministro, Hichem Mechichi, è impegnato in un rimpasto del suo Governo, in carica soltanto da quattro mesi. Tale decisione è stata assunta senza consultare il presidente della Repubblica, Kais Saied, architetto dell’operazione politica per portare Mechichi alla Casbah di Tunisi, sede dell’Esecutivo. La mossa del primo ministro deve essere letta alla luce del tentativo di rafforzare la sua posizione in Parlamento, dove non dispone di una formazione politica propria. Intanto, i partiti non riescono a trovare la forza propulsiva per affrontare le sfide sociali ed economiche, a vantaggio di gruppi che si presentano come alternativa radicale per portare efficienza nel sistema.

La Tunisia si è dotata di una Costituzione democratica nel 2014 e, in quello stesso anno, ha conosciuto le prime consultazioni libere dall’indipendenza, ottenuta nel 1956. Anche le ultime elezioni parlamentari e presidenziali del 2019 sono state considerate dagli osservatori internazionali rispettose degli standard democratici. Ma i partiti, nel timore di pregiudicare la transizione ancora in corso e di danneggiare le classi sociali o le categorie produttive di cui sono rappresentanti, si sono arenati nell’immobilismo. Inoltre, la vittoria come candidato indipendente non consente al capo dello Stato di esercitare pienamente quella funzione di indirizzo politico propria degli ordinamenti semipresidenziali.

Nonostante le grandi speranze che avevano salutato l’elezione di Saied, l’assenza di una formazione politica di appartenenza rende difficile l’adozione di decisioni invise ai partiti. La fatica del negoziato e dei compromessi è obbligatoria, a scapito della capacità di rispondere ai problemi dei tunisini. Eppure, Saied aveva raccolto consensi soprattutto tra i più giovani e nei ceti sociali medio-bassi. Egli era percepito come attore esterno alle liturgie della politica parlamentare, capace di portare il suo passato di professore di diritto costituzionale a beneficio del Paese. A quindici mesi dal suo insediamento a Cartagine, sede della presidenza della Repubblica, Saied appare alla maggioranza dei tunisini incapace di esprimere quelle doti di attivismo politico e abilità decisionali attribuitegli durante la campagna elettorale.

La sclerotizzazione del sistema politico, che l’impalcatura istituzionale non consente di superare, favorisce movimenti ritenuti più determinati a fare le scelte di cui il Paese ha bisogno. In particolare, è sempre più popolare la figura di Abir Moussi, avvocatessa che guida il Partito destouriano libero. Questo era stato fondato nel 2013 da Hamed Karoui, già primo ministro di Ben Ali tra il 1989 e il 1999, e ha conquistato 16 seggi alle elezioni del 2019. I sondaggi danno il partito in rapida crescita, sostenuta da una retorica intransigente a favore del ripristino di condizioni di maggiore sicurezza, di lotta alla corruzione diffusa, piaga endemica del Paese, e soprattutto di un ciclo di crescita economica interrotto da troppi anni.

Gli innegabili progressi della Tunisia nel suo cammino per dotarsi di istituzioni solide e veramente rappresentative non sono stati affiancati da un miglioramento generale delle condizioni della popolazione. In molti casi, i tunisini hanno assistito addirittura a un peggioramento della qualità della vita. Diverse aree del Paese, lontane dalle coste mediterranee e dai grandi centri urbani, restano molto in ritardo nel cammino verso lo sviluppo. Le periferie delle città ospitano ampie sacche di povertà e degrado. La pandemia di coronavirus ha compromesso le prospettive di ripresa economica.

Dopo gli anni bui seguiti agli attentati del 2015, sembrava che il settore turistico, capace di dare lavoro a circa 400mila persone e di contribuire a un quinto del Pil, fosse pronto a ripartire. E invece bisognerà aspettare altro tempo, mentre il tasso di disoccupazione ufficiale sfiora il 20% e i giovani non riescono a trovare sbocchi professionali. Il rischio è quindi che il fuoco della rabbia popolare covi a lungo sotto la cenere per esplodere all’improvviso e travolgere la fragile democrazia del piccolo Paese nordafricano. I tunisini hanno voluto la democrazia, ma ora vogliono pane. E subito.

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