Con la cerimonia di insediamento di oggi, inizia il mandato di Joe Biden come 46° presidente degli Stati Uniti. Molti hanno speculato su un cambiamento profondo della politica americana in Medio Oriente. Ma la realtà è che, al di là della retorica, le linee di base dell’azione di Washington nella regione non muteranno.

Negli ultimi quindici anni, l’importanza strategica del Medio Oriente per gli Stati Uniti è diminuita. Lo sviluppo delle tecnologie per l’estrazione di gas e petrolio da sabbie bituminose e mediante fratturazione idraulica ha reso Washington quasi indipendente sul piano energetico.

Il tentativo dell’Arabia Saudita di distruggere il settore dello shale oil americano, portato avanti tra il 2016 e il 2018, non ha centrato l’obiettivo. Riad, in accordo con altri Paesi esportatori di greggio, decise allora di aumentare la produzione. Lo scopo era di generare un eccesso di offerta e determinare un crollo delle quotazioni del barile. Il piano sfruttava il vantaggio di costi di estrazione molto più bassi rispetto a quelli dei produttori americani per determinarne l’uscita dal mercato. La politica saudita ha solo rallentato la trasformazione degli Stati Uniti da primo importatore mondiale di petrolio a Paese capace di coprire quasi tutto il suo fabbisogno con la produzione nazionale.

L’autosufficienza energetica ha determinato un ridimensionamento del valore strategico dello scacchiere mediorientale agli occhi dei policy maker americani. Ciononostante, la regione mantiene un’importanza tale da rendere impensabile che Washington possa disinteressarsene. I Paesi del Golfo restano fornitori di gas e petrolio indispensabili per il funzionamento dei sistemi economici di molti alleati degli Stati Uniti, tanto in Europa quanto in Asia. L’India, ad esempio, dipende in buona parte dal greggio mediorientale ed è un partner importante per il contenimento della Cina. Inoltre, intorno alla Penisola arabica, passano alcune delle rotte più importanti per il commercio globale. Queste collegano i mercati dell’Estremo Oriente e del Sud-est asiatico con l’Europa e la costa atlantica degli Stati Uniti, attraverso Suez e Gibilterra.

Il blocco di Paesi compreso tra il Mediterraneo orientale e l’Iran continua dunque a ricoprire un ruolo chiave nella politica estera di Washington. Ma l’approccio americano è molto cambiato rispetto agli inizi del nuovo secolo. Abbandonata la dottrina Bush della guerra preventiva per estendere la libertà, la democrazia e la sicurezza in tutte le regioni del mondo, sfruttando la superiorità militare americana, gli Stati Uniti si sono concentrati sul mantenimento degli equilibri di potenza tra i Paesi mediorientali. Accanto a tale obiettivo, Washington vigila per impedire che potenze esterne rivali, come la Cina e la Russia, possano accrescere la loro influenza tanto da minacciare seriamente i suoi interessi.

Biden non si allontanerà da questa linea di politica estera. Certo, la retorica e i toni del nuovo presidente sono molto diversi rispetto alla narrativa incendiaria e alle spigolosità di Donald Trump. Ma, in Medio Oriente, gli Stati Uniti continueranno a perseguire gli obiettivi appena illustrati.

Anche l’intenzione di riprendere il dialogo con l’Iran è solo in apparenza in contrasto con la politica della massima pressione su Teheran. Il regime degli ayatollah, nonostante gli slogan bellicosi di Trump e gli allarmi di Israele e delle monarchie del Golfo, in questo momento è molto debole. Tre anni di sanzioni hanno strangolato l’economia iraniana. Inoltre, la morte del generale Qasem Soleimani, ucciso nel gennaio del 2020 da un attacco mirato ordinato dalla Casa Bianca, ha privato Teheran del principale artefice del tentativo di dare vita a un Crescente sciita, esteso dalle coste del Libano e della Siria fino al Balucistan. Proprio questa fragilità rende impossibile realizzare le ambizioni egemoniche dell’Iran, con il quale Washington può ora negoziare un nuovo modus vivendi. La probabilità che Teheran si dotasse di armamenti nucleari è sempre stata remota. Le velleità atomiche sono state usate solo per dare legittimità a una politica finalizzata a impedire che l’Iran assumesse un peso geopolitico tale da stravolgere gli equilibri in Medio Oriente.

Per le stesse ragioni, gli americani hanno cominciato a guardare con crescente insofferenza a un altro Paese, che minaccia di destabilizzare la regione. Si tratta della Turchia. Il presidente Recep Tayyp Erdoğan non nasconde la volontà di accrescere il peso di Ankara nello scacchiere internazionale. Tale ambizione, supportata da frequenti riferimenti alla gloria del passato ottomano, si riverbera in diversi contesi.

Nel Mediterraneo e nel Mar Rosso, i turchi sono impegnati ad applicare la dottrina della Patria Blu, Mavi Vatan. Essa implica il controllo dei mari per accaparrarsi le risorse energetiche e imporre la propria influenza. Questo spiega le tensioni con la Grecia e con Cipro per la ridefinizione dei confini marittimi e le ricerche di giacimenti sottomarini di gas nonché gli accordi con la Libia per la sistemazione delle rispettive zone economiche esclusive, ai danni di Atene. Inoltre, Ankara finanzia le formazioni che si rifanno all’ideologia dei Fratelli musulmani, fautori di un approccio di tipo politico all’Islam e considerati un pericolo dai regimi in Egitto e nel Golfo, con l’eccezione del Qatar. Proprio l’affinità con Doha ha rafforzato i legami tra la Turchia e il piccolo Emirato, suscitando paure e sospetti nei Paesi confinanti. Questi sono infatti preoccupati dalle mire egemoniche di Erdoğan e della famiglia Al Thani.

Più che l’Iran sarà dunque la Turchia a rappresentare un motivo di preoccupazione per Joe Biden, definendone le priorità nello scenario mediorientale. Ankara fa parte dell’Alleanza atlantica fin dal 1952, ma gli Stati Uniti non sono disposti a consentire a un partner divenuto infido di scardinare gli equilibri nell’area per assumere una posizione egemonica. Biden ne ha già preso atto e si comporterà di conseguenza.

Foto: Andrew Harnik